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Ovvero:

Appunti sui quattro livelli di logica

Il livello immaginativo è la prima facoltà conoscitiva superiore rispetto a quello “della catena di montaggio” o intellettualistico, o matematico o della mera astrazione. Quest’ultima non è logica concreta o logica di realtà, ma logismo, formalismo logico, per esempio quello del galateo o delle netiquettes, o del “politicamente corretto”, ecc.

Possediamo tutti, per natura, due modi di pensare, che ci permettono di conoscere due differenti realtà: quella materiale, data dal vedere con l’occhio fisico, e quella dell’interiorità, data dal vedere con l’occhio interiore.

La prima riguarda la passività dell’intellettualismo, prevalente nella nostra epoca, il quale, collegato al sistema neurosensoriale, non porta ad alcuna trasformazione evolutiva, e può tutt’al più costruire catene di comportamenti o di modelli comportamentali che abbisognano di immaginazione o logica immaginativa per non rimanere primitive. Le chiamo catene in quanto incatenano l’individualità alla specie e l’io al noi moraleggiando il passaggio involutivo dall’etica alla ricetta etica, come se l’etica fosse dietetica.

La seconda è propriamente l’attività creativa dell’immagine delle cose, o della “pellicola” immateriale che distingue la forma delle cose. Si tratta dell’attività della logica immaginativa, che inizia dove termina l’intellettualismo astratto.

La logica immaginativa è di breve durata e, se non auto-disciplinata, degenera nel fantasticare. Non essendo incatenata al sistema neurosensoriale, genera un pensare libero dai sensi, il quale - diversamente dal pensare intellettuale - è attivo. Chi dalla propria interiorità sa trarre le forze necessarie per far sorgere in sé questo pensare attivo di tipo morfologico in quanto sperimenta forme create dall’io umano, sperimenta un pensare vivente, nella misura in cui, immaginando, vive la vita del pensare. L’io crea le forme perché si distingue da esse, infrangendosi in esse come io. Per esempio, il bambino impara a dire io dicendo “Ahi” ogni volta che si conosce diverso dalla forma dell’angolo del tavolo, che gli ferisce la testa se non sta attento. L’immagine della punta di quell’angolo lo “informa” del proprio io. Prima di quell’apprendimento dice “Tavolo cattivo” perché non ancora identificato in sé, si identifica nell’immagine del mondo che ha di fronte.

È proprio questa caratteristica immaginativa che ci permette di evolverci, ovviamente se la sviluppiamo per farla sorgere in modo sempre più consapevole per poi disciplinarla. Quando immaginiamo, superiamo la dimensione spaziale, e penetriamo in quella del tempo: se per esempio io immagino una cosa, devo rappresentarmela, e poiché ho a che fare con la memoria, ho l’esperienza del tempo. Se invece percepisco la cosa reale, per esempio il tavolo reale che mi sta di fronte, ho l’esperienza (di tipo passivo) del mero spazio, vale a dire: sperimento il tavolo secondo logica intellettuale, che è il livello inferiore dei quattro livelli di logica (inferiore non in senso morale, ovviamente).

Oltre a questi primi due livelli, vi è il livello ispirativo, che può essere anch’esso sviluppato, e che permette di conoscere la realtà che sta a fondamento dell’interiore logica immaginativa, per esempio: già per caratterizzare cosa si intenda con la parola “realtà” occorre saper distinguere fra un tavolo e l’immagine che ne ho, cioè fra un oggetto di percezione e la relativa sua rappresentazione. L’attività dell’ispirare deriva dall’analogia esistente col processo respiratorio ben noto nelle esperienze di yoga.

Soprattutto per l’uomo moderno è indispensabile riappropriarsi della conoscenza di questi livelli logici, in piena coscienza desta e non semisognante come avveniva per l’antico yogi indiano. Se oggi si ragionasse come l’antico yogi si arriverebbe a solipsismi o a referenzialismi intellettuali. Di fatto è già così, dato che molta gente fa talmente fatica ad ascoltare e a comprendere i propri simili - basta osservare i dibattiti televisivi o alcuni post di forum internet per accorgersene - che non ascolta più nessuno se non in modo formale o secondo il galateo.

Anche la logica ispirativa può degenerare in qualcosa di sognante. Il rimedio a ciò è che il nostro percepire interiore (l’udire interiore) diventi capace di attribuire per esempio ai suoni la diversa essenza proveniente dalla cosa risuonante: se con un martelletto percuoto un bicchiere e poi una pentola, odo due suoni differenti, che mi ispirano due differenti essenze, le quali riguardano la differente consistenza degli oggetti risuonanti. Allo stesso modo l’ascolto della voce umana di un mio simile mi darà altre essenziali informazioni sull’essenza del mio simile; non mi darà soltanto hertz, in base ai quali anche la logica matematica del computer può reagire, registrare e riprodurre.

Il passaggio dalla logica immaginativa a quella ispirativa esige l’uso di concetti differenti da quelli usati di solito nel nostro quotidiano. Se per esempio parlo del calore della fiamma del fornello che mi sta scaldando un caffè, non parlo del calore che i colori di un dipinto mi ispirano. Eppure tutti i film che vediamo, le opere coreografiche, o artistiche in generale, tutto questo, ci è più o meno gradito a seconda di queste tonalità di colore e di calore. Non ce ne accorgiamo, però assumiamo come reale il calore o la freddezza di un dipinto fino al punto di volerlo possedere e di acquistarlo.

In altre parole occorre sviluppare mobilità interiore che renda capaci di passare facilmente dalle esperienze fisiche a quelle interiori e viceversa.

La mancanza di questa mobilità interiore e il non essere pronti a questo aspetto immobilizza l’anima (che ha senso solo se vi è “animazione”, attività interiore) ed allora si diventa visionari, non veggenti. Il visionario vede solo dottrine, dogmi, ostie, cose che può toccare, mangiare e a cui attribuisce regole da credere. Il veggente invece vede le cose che i concetti e le idee evocano, anche se esse appartengono all’immateriale e/o allo spirituale: percepisce concretamente tali cose in modo sovrasensibile.

Occorre rendersi conto insomma che tutto ciò che si manifesta nella realtà materiale è promosso da qualcosa di immateriale.

Un esempio: viaggiando in auto a una certa velocità, scorgo a una certa distanza una curva, e  dubitando di riuscire a fare quella determinata curva senza rallentare, rallento anche se non c’è alcun cartello che mi dice di rallentare. Se reputassi possibile procedere alla medesima velocità solo con l’ammettere di farcela - perché sono bloccato interiormente nell’assolutizzazione dogmatica che ognuno può credere ciò che vuole perché è libero di farlo, sarei un esaltato visionario, dato che trasformerei in allucinazione ciò che i miei sensi e il mio pensare mi offrono come oggetto di percezione (cioè la pericolosità della curva e/o la necessità di rallentare). Lo stesso può essere detto in altra forma: chi da’ più importanza alla regola che al proprio percepire, vede il cartello stradale che dice di rallentare e rallenta, e se non lo vede o se manca il cartello non rallenta. Questo è il comportamento del fanatico delle regole, o del visionario, il quale non vede ma crede in una sua pregiudiziale visione del mondo secondo la quale la sua fede è la migliore.

Insomma sono un visionario nella misura in cui vedo non secondo logica di realtà (immaginativa, ispirativa, ecc.) ma velleitariamente, cioè “vedo” ciò che non c’è: un’immagine diversa da quella che potrei avere percettivamente circa la relazione di quella curva con la velocità a cui sto viaggiando. E quella inesistente immagine diventa il motivo del mio agire (da visionario). Agisco non in base a mie esperienze percettive ma in base all’assolutizzazione della mia “fede” o “dottrina”. Questa fissazione dell’immagine è tipica del visionario, del credente, del dogmatico, ecc.

Altro esempio: una donna si crea per fede un’immagine di sé contraria a quella della propria autofiducia ed afferma: in quanto donna sono colpevole di trasgressione e ingannata, quindi non posso insegnare alcunché all’uomo ma solo essergli sottomessa e partorirgli figli, come sta scritto nella mia fede (1Timoteo 2,11-15).

Uno potrebbe dire: ma una donna così scema non può esistere. In realtà esistono molte donne, come anche molti uomini, ridotti così dalla fede assolutizzata (o dallo zelo privo di conoscenza o di logica o di Logos).

L’immagine che per zelo non si sostituisce con un’altra rende visionari, fanatici, patologici insomma: “l’immagine che gli antichi si facevano della relazione della terra col sole e con gli altri corpi celesti, dovette essere sostituita da Copernico con un’altra, perché non andava più d’accordo con certe percezioni che prima erano sconosciute” (R. Steiner, “Il mondo come percezione”, cap. 5° de “La filosofia della libertà”).

Noi incominciamo a conoscere le cose a partire dalla loro sostanza fisica. Poi pian piano, attraverso la logica immaginativa e quella ispirativa, arriviamo a percepire sovrasensibilmente che vi è una bella differenza fra il nostro stato di veglia e quello di sonno, dato che il mondo del sogno o degli archetipi, o dei simboli, che riguarda il mondo immateriale o spirituale, compenetra tutta la nostra vita, cioè tutte le ventiquattro ore di ogni nostro giorno, comprese le otto ore di sonno. Perciò, a questo livello, è possibile percepire che abbiamo anche un io superiore, ispiratore del nostro destino terreno, e che ci può perfino indicare la qualità della nostra vita nel post mortem, per esempio attraverso i sogni (anche questo argomento può essere sviluppato ma non in modo sintetico).

Il livello più alto della logica è quello intuitivo. La logica intuitiva è la facoltà conoscitiva più alta che possiamo sviluppare, perché “intuire” (dal latino “intus - ire”, “andare dentro”) significa conoscere dall’interno, e perché con l’intuizione consapevole si arriva a conoscere spiritualmente gli altri e le cose del mondo esterno proprio a partire dal loro interno.

Ciò è possibile. Nel quotidiano di tutti, sperimentiamo continuamente e in modo certo un’intuizione precisa: l’intuizione dell’io. Questa esperienza di solito passa inosservata, e ciò la rende ancora più straordinaria, dato che la parola “io” è un’eccezione rispetto a ogni altra parola: infatti solo dall’intimo, l’io può essere percepito nella sua realtà. La parola “io” può essere sempre pronunciata e spiegata come qualsiasi altra parola, però la si può sperimentare nella sua realtà solo per riferirci a noi stessi. Nessun altro, infatti, può chiamarci “io”. Per chiunque, noi siamo un “tu”, e gli altri sono un “tu” per noi. Le cose stanno così perché tutti viviamo in modo incontrovertibile dentro di noi.

Grazie a questo livello logico (livello intuitivo), possiamo essere, proprio come accade con l’io, in tutte le cose e in tutte le creature.

La percezione dell’io è l’unico modello possibile per l’esperienza del livello logico intuitivo.

L’esperienza dell’io riguarda un vero e proprio senso spirituale dell’uomo: il senso dell’io. Questo senso è importante come ogni altro senso riconosciuto dalla scienza di Stato.

L’uomo è capace di amore vero e universale solo se, distinguendo fra il suo io fisico ordinario (“Io sono il mio corpo materiale”) e il suo io superiore (“Io sono immateriale”), sceglie le dinamiche di quest’ultimo per rapportarsi ai suoi simili. Allora non sbaglia mai, perché una volta raggiunta la capacità di svuotare completamente la propria coscienza dai preconcetti e dai pregiudizi, diventa spregiudicato amante e testimone del mondo spirituale (o immateriale): è in grado di far coincidere il suo io corporeo col suo vero io, e quando si rende conto che il suo vero io gli viene incontro dal mondo immateriale comprende di trovarsi nel mondo divino. 

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