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L’idea della sovrappopolazione del pianeta ha le sue radici nella teologia di Malthus, secondo i cui calcoli, la popolazione mondiale odierna avrebbe dovrebbe essere di 256 miliardi di individui.

Invece siamo circa 7 miliardi.

Rudof Steiner aveva parlato già nel 1918 del teologo e sociologo Tomas Robert Malthus (1766-1834) come segue. «Egli [Malthus] disse che se si considera l'aumento della popolazione della terra - come molti studiosi moderni egli era del parere che la popolazione della terra aumentasse continuamente - e se si considera l’aumento degli alimenti prodotti, si ha un certo rapporto. Malthus lo esprime in forma matematica dicendo che in progressione aritmetica avviene l'aumento degli alimenti avviene, mentre in progressione geometrica l'aumento della popolazione. Posso chiarirlo con qualche cifra. Supponendo che la produzione degli alimenti sia 1, 2, 3, 4, 5, per la popolazione avremmo il rapporto geometrico 1, 2, 4, 8, 16. In altre parole, egli pensa che la popolazione aumenti molto più rapidamente degli alimenti. È dunque del parere che l'evoluzione dell'umanità non possa sfuggire al pericolo che subentri la lotta per la vita, e che alla fine vi siano troppi uomini in confronto all'aumento degli alimenti. Egli dunque considera l'evoluzione economica umana dal punto di vista del tutto diverso, dal punto di vista del rapporto dell'uomo con le condizioni della terra, e arriva al punto, o quanto meno i suoi seguaci arrivano al punto di considerare realmente contrario all'evoluzione l'occuparsi molto dei poveri e dei problemi connessi, perché‚ in tal modo si coltiva soltanto il sovrappopolamento, il che è dannoso all'evoluzione dell'umanità. Malthus arriva proprio a dire: "Si lasci senza assistenza chi è debole nella vita, perché‚ si tratta di eliminare gli inadeguati alla vita". Egli [...] considera le guerre come manifestazione necessaria dell'evoluzione dell'umanità, dato che esiste la naturale tendenza dell'aumento più rapido della popolazione in confronto agli alimenti. Come si vede prende posto nella storia una concezione ben pessimistica, per quanto riguarda l'evoluzione economica dell’umanità. Non si può dire che il rapporto dell'uomo con la base naturale dell'economia sia stato molto seguito nel tempi più recenti. La gente nei tempi moderni non ha neppure la chiara coscienza che si dovrebbe indagare in questa direzione. In un certo senso si è tornati a riferirsi alla struttura sociale stessa, alla maniera in cui gli uomini debbano distribuire quanto è disponibile, perché‚ possano conseguire il massimo benessere; il problema non è tanto il modo di ricavare possibilmente molto dalla terra, ma piuttosto la distribuzione. Ebbene, nell'evoluzione del corso delle idee, si manifestano varie cose che è importante osservare perché‚ esse preparano il pensiero sociale e socialistico del tempo attuale; quello che ha condotto e sempre più condurrà gli uomini in una specie di caos sociale da cui necessariamente bisognerà cercare la via d'uscita» (Rudolf Steiner, Dornach 13 dicembre 1918, ottava conferenza del ciclo "Esigenze sociali dei tempi nuovi", Ed. Antroposofica, Molano 1971).

Oggi non abbiamo prove confermanti la sovrappopolazione del pianeta. Abbiamo invece prove certe che l’evoluzione del crollo del tasso di mortalità coincide con una crescita della produttività, della ricchezza, della sanità come mai nella storia dell’uomo, e che la disparità economica è dovuta SOLO a politiche sbagliate, non alla crescita della popolazione.

Eppure c’è ancora, oggi, gente talmente priva di giudizio critico da portare avanti questa ECOBUFALA. Si tratta dei Radicali. Uno dei principali argomenti della loro ideologia è il catastrofismo: sterilizzazione, contraccezione e aborto sarebbero indispensabili per controllare l’aumento demografico. Gli abortisti parlano perciò lo stesso linguaggio degli ecologisti e degli animalisti radicali che, facendo proprie le idee del Club di Roma, associazione specializzata negli anni Settanta a diffondere notizie allarmanti sulla popolazione mondiale ed anche italiana, prevedendo catastrofi e distruzioni anche nel nostro paese a causa di un presunto eccesso di popolazione, e/o di Bertrand Russell, filosofo giustificatore del genocidio di massa, vedono l’uomo come un cancro terribile, un microrganismo deleterio, o un parassita nocivo che minaccia il pianeta. È pazzesco ma questa è la realtà della loro totale mancanza di vita pensante.

Stabilito scientificamente, filosoficamente e teologicamente, che l’embrione è una persona umana, secondo questi loro argomenti dissennati la liceità dell’uccisione di una persona per fini demografici potrebbe essere logicamente sostenuta.

Idee come queste circolavano già nei sostenitori della prima guerra mondiale: «Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita» (Giovanni Papini, ottobre 1914, 6 anni prima della conversione cattolica).

A ben vedere, già nel termine "sovrappopolazione" vi è un problema, dato che esso evoca la presunzione di conoscere la quantità della popolazione ottimale del pianeta, mentre è notorio che qualunque stima è risultata fasulla. La storia ha comunque sempre più mostrato l’infondatezza della paura per la sovrappopolazione.

Nel 1972 fu pubblicato il famoso studio dal titolo “The limit to growth” commissionato dal Club di Roma, in cui si sostenne scientificamente che la crescita della popolazione collegata ai consumi sempre crescenti avrebbe esaurito le risorse del pianeta in pochi anni. Nel libro, considerato il testo sacro del movimento ambientalista, tradotto in venti lingue e diffuso in nove milioni di copie, si prevedeva che a livelli di consumo del 1972 l’oro si sarebbe esaurito nel 1981, il mercurio nel 1985, lo stagno nel 1987, lo zinco nel 1990, il petrolio nel 1992, e il rame, il piombo e il gas nel 1993. I senza cervello dichiararono quindi: «All’attuale tasso di espansione argento, stagno e uranio potrebbero essere molto scarsi e raggiungere prezzi altissimi entro la fine del millennio» (D.H Meadows, D. Meadows, J. Randers, W.W. Beherens III, “The limits to growth, A report for the Club of Rome’s Project on the predicament of mankind” Universe Book, New York 1972. Edizione Italiana: “I limiti dello sviluppo”, Mondadori, Milano 1973). L’errore fu clamoroso: a distanza di circa 40 anni, se si guardano i dati forniti dal Dipartimento delle Miniere degli Stati Uniti del 1991 (U.S. Department of the Interior, Bureau of Mines, Mineral Commodity Summaries 1991), risulta che i prezzi reali di antimonio, mercurio, platino, argento, stagno e tungsteno sono crollati del 50%. Quelli di rame, piombo e magnesio sono crollati del 20%. Addirittura argento, stagno, uranio e piombo, hanno oggi un prezzo minore di quello che avevano nel 1972.

Quanto segue è una raccolta di notizie prese semplicemente dal web che dimostrano come questa mega bufala malthusiana occupi ancora la mente completamente stordita di certe persone.

 

Nel 1986 la National Academy of Sciences ha pubblicato uno studio accurato in totale contrasto con le tesi maltusiane e contro l’idea popolare che più siamo e meno ci sarà da mangiare. Negli anni 1970-75, ad esempio, l’aumento della produzione è stata del 3% a fronte di una crescita della popolazione del 2,4%. Mentre nel periodo 1987-1992, l’aumento della produzione di cibo è stata del 4,4% e quella della crescita della popolazione è stata dell’1,9%. Ecco i risultati dello studio: «L’India potrebbe sostenere due volte e mezza la popolazione prevista per l’anno duemila. Lo Zaire dispone di un enorme potenziale agricolo, sarebbe in grado di sostenere 62 volte in numero di popolazione prevista per l’anno duemila. Lo Zaire inoltre potrebbe produrre cibo a sufficienza per l’intera popolazione dell’Africa» (National Research Council, “Population Growth and Economic Development: Policy Questions“, Washington 1986).

Nel settembre 1987, l’economista Thomas De Gregori, docente presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Houston, scrisse l’articolo “Resources Are Not; They Become: An Institutional Theory”, apparso sul Journal of Economic Issues. In esso sostenne che «se c’è la fame nel mondo è a causa della cattiva distribuzione del cibo, non dell’insufficiente produzione globale [...]. L’uomo è l’agente attivo, ha idee che usa per formare l’ambiente per scopi umani. Le risorse non sono fisse e finite, perché non sono naturali. Si tratta di un prodotto dell’ingegno umano derivante dalla creazione della tecnologia e della scienza» (T. De Gregori, “Resources Are Not; They Become: An Institutional Theory”, Journal of Economic Issues 21; citato in http://www.cato.org/pubs/chapters/marlib21.html).

Nel 1989 viene fondato il “Population Research Institute“, organizzazione non-profit di ricerca e organizzazione educativa dedicata all’approfondimento delle questioni legate alla demografia, interessata ad invertire le tendenze portate dal mito della sovrappopolazione. Il suo ricco sito web è www.pop.org . Nel medesimo anno, Angus Maddison dell’Università di Groningen, smentiva l’assunto maltusiano secondo cui la crescita demografica avrebbe portato al disastro economico impoverendo la società. Rilevò infatti che l’aumento della ricchezza pro capite nel mondo era avvenuta proprio in quei Paesi dove maggiore era la densità demografica. Secondo Maddison, i 43 paesi più densamente popolati erano tre quarti degli individui viventi sulla Terra e più del 75% in termini di produzione economica. Tra il 1920 ed il 1989 la produzione pro capite dei cittadini dell’Europa occidentale, del Nord America e dell’Australia aumentò di 13 volte e raddoppiò la produzione che replicò ancora nei successivi sessanta anni, triplicando tra il 1950 ed il 1989. Lo stesso fenomeno avvenne in Corea del Sud, in Taiwan, in Tailandia e in Giappone (A. Maddison, “The World Economy in the Twentieth Century”, OECD, Parigi 1989).

Nel 1992, David Osterfeld, dell’Università di Cincinnati, autore del libro “Prosperity Versus Planning: How Government Stifles Economic Growth” (Oxford University Press 1992), in un articolo intitolato “Il perenne mito della sovrappopolazione”, attaccò l’informazione eco-terrorista circa l’imminente morte di fame per milioni di persone per mancanza di cibo, scrivendo: «I catastrofisti hanno predetto rovina e oscurantismo per secoli. La cosa forse più straordinaria di questo perenne esercizio è che i catastrofisti sembrano non essersi mai fermati abbastanza a lungo per far sapere che le loro predizioni non si sono mai materializzate […].La popolazione è cresciuta di sei volte negli ultimi 200 anni e questa esplosione è stata accompagnata, ed in larga parte è stata resa possibile, da una esplosione nella produttività, nelle risorse, nell’informazione, nelle comunicazioni, nella scienza e nella medicina [...]. La produzione di cibo ha ecceduto la crescita della popolazione (l’1% all’anno) dal 1940. Vi è attualmente abbastanza cibo da sfamare chiunque nel mondo e molti esperti ritengono che senza nessun avanzamento nella scienza o nella tecnologia noi attualmente abbiamo la capacità di sfamare adeguatamente, su basi sostenibili, 40 o 50 miliardi di persone (otto o dieci volte l’attuale popolazione). [Senza contare l’uso della biotecnologia. La gente soffre di fame] a causa della guerra o delle politiche dei governi [non per il sovraffollamento. Rispetto alle risorse naturali], come il cibo, non sono mai state così abbondanti come oggi. Praticamente tutte le risorse sono meno costose oggi rispetto a qualsiasi altro periodo. Le risorse non sono cose che troviamo in natura, sono le idee che creano le risorse. Più gente significa più idee. Non c’è ragione dunque di credere che popolazione crescente significhi riduzione delle risorse disponibili. Storicamente, è stato vero l’opposto. [Rispetto allo spazio vitale, è vero che più gente significa meno spazio] ma è anche irrilevante. Per esempio, se l’intera popolazione del mondo fosse messa nello stato dell’Alaska, ogni individuo riceverebbe 3,500 piedi quadrati di spazio (circa la metà del lotto a disposizione della famiglia americana media). Ci sono più case, più aree verdi e più stanze per persona che mai prima d’ora. In breve, così come il cibo e le risorse, lo spazio vitale è diventato, dal punto di vista di una misurazione significativa, più abbondante». Osterfeld concludeva l’articolo ricordando comunque che l’esplosione della popolazione aveva purtroppo iniziato a rallentare. Nello stesso anno, in Europa Harvey Le Bras, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Demografia di Parigi, scriveva: «Non esistono prove per dimostrare che la densità demografica è in contrasto con una buona qualità della vita» (H. Le Bras, “The Myths of Overpopulation, in Proyections”, volume 7-8, 1992).

Nel marzo del 1993 fu pubblicato in America un importante libro intitolato “Market Liberalism: A Paradigm for the 21st Century” (Cato Inst 1993), presentato alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo. Nel 21° capitolo, intitolato “La crescente abbondanza delle risorse naturali”, Jerry Taylor, senior fellow presso il Cato Institute e ricercatore di politica ambientale, dimostrava che «nel momento stesso in cui la lobby della conservazione [delle risorse naturali] convinceva milioni di americani e le legislature di tutto il mondo che la scarsità delle risorse era in agguato dietro l’angolo, l’economia globale assisteva alla più grande esplosione di abbondanza di risorse nella storia dell’umanità». Rispetto all’energia, dopo aver presentato i dati, affermò: «Contrariamente alla credenza popolare, le scorte di energia di ogni genere, sia fossile che non fossile, sono aumentate costantemente e il prezzo si è abbassato. Siamo di fronte ad un’abbondanza senza precedenti, non alla scarsità». E rispetto alle risorse minerarie: «L’esame delle risorse minerarie in ultima analisi indica che abbiamo solo iniziato a sfruttare le ricche e abbondanti vene della terra. I dati del US Geological Survey rivelano che, se continueranno le attuali tendenze di consumo, le risorse minerarie recuperabili dureranno per centinaia, migliaia e persino decine di migliaia di anni. Il 99,9 % di tutta la domanda di metalli minerali è praticamente inesauribile, per qualsiasi orizzonte temporale concepibile». Per le risorse agricole aveva fatto notare: «il prezzo degli alimenti è diminuito dell’83 per cento dal 1950. Chiaramente, se la produttività agricola della terra sarebbe stata superata dalla domanda di cibo a causa della esplosione demografica, i prezzi agricoli sarebbero in forte aumento piuttosto che in drammatica caduta come i dati indicano». Confermando le citazioni di diversi economisti secondo i quali la produzione agricola del pianeta era aumentata in modo esponenziale nel corso dei secoli passati, affermò: «Sebbene la popolazione mondiale sia raddoppiata dalla seconda guerra mondiale, la produzione mondiale di cereali è triplicata e l’abbondanza agricola si è tradotta in una migliore salute, anche per i più poveri del Terzo Mondo. Inoltre, ci sono buone ragioni per credere che il pianeta potrà sfamare decine di miliardi di persone per molte generazioni a venire [...]. L’erosione del suolo non è il risultato della moderna agricoltura ad alto rendimento, ma dei tentativi di utilizzare, a basso rendimento, le tecniche agricole tradizionali su terreni fragili». Jerry Taylor aveva altresì affrontato ingiustificate paure in merito al disboscamento: «ben poche prove, oltre ad aneddoti, sono mai state avanzate a sostegno di questa convinzione purtroppo diffusa. Secondo i dati più recenti delle Nazioni Unite, le foreste coprono 4 miliardi di ettari (più del 30 per cento della superficie totale). Questa cifra non è cambiata sensibilmente dal 1950, anche nel bel mezzo dell’esplosione demografica». E ancora: «Dal 1920 le foreste Stati Uniti sono aumentate del 57 per cento, e nello stesso periodo la popolazione degli Stati Uniti raddoppiata». Taylor concludeva su uno dei più grossi errori dei catastrofisti: «il difetto fondamentale nel paradigma ambientalista è la premessa che le risorse mondiali siano create dalla natura e così fissate e finite. Ma nessuna singola risorsa materiale è mai stata creata dalla “natura”. È la conoscenza umana e la tecnologia che creano le risorse. Le dimensioni della nostra torta delle risorse è determinata non dalla natura, ma dalle istituzioni economiche e sociali che definiscono i limiti del progresso tecnologico».

Jerry Taylor, compilò poi una statistica sulla disponibilità conosciuta delle 13 più importanti risorse naturali nel periodo tra il 1950 ed il 1990. Contrariamente alle previsioni degli ambientalisti e dei radicali, le riserve si erano moltiplicate nel giro di 50 anni (J. Taylor, “Sustainable Develompent”, pubblicato su Regulation 1, 1994, p.37).

Sempre nel 1994 il ricercatore statunitense Robert L. Sassone, nel suo libro “Handbook on Population” (Springer 2006), scriveva: «Benché sia vero che la terra ha una spazio circoscritto, molti cittadini che vivono in città credono che il mondo intero sia sovraffollato come le città, ma non sanno che meno dell’1% della superficie terrestre è coperta dalle città. A differenza che nel passato quando l’agricoltura era la maggiore attività produttiva, oggi la mappa della popolazione registra un’accresciuta densità nelle città ed uno spopolamento delle campagne. Oggi, come nel passato, gli esseri umani si riuniscono insieme, non perché manchi lo spazio sul pianeta, ma perché abbiamo bisogno di lavorare in gruppo, acquistare e vendere, fornire e ricevere servizi l’un l’altro. Le nostre città e metropoli sono sempre state congestionate dalla gente e dal traffico; cavalli, somari e cammelli in passato, veicoli a motore oggi» (R. L. Sassone, “Handbook on Population”, American Life League, Inc. Stafford 1994, p.41.). Sassone aveva altresì rilevato che l’urbanizzazione è un processo che mentre fa crescere la densità di popolazione nella città riduce quello relativo alle campagne, per cui esistono più spazi rurali (o in campagna) di quanto ci fosse nel passato.

L’11 novembre 1995, durante un convegno sul tema “Popolazione e sviluppo“, organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Svizzeri, il noto geografo, economista e demografo francese Gérard-François Dumont, docente presso l’Università di Parigi, tenne un incontro dal titolo “La mythologie contemporaine en démographie”, durante il quale affermò: «Accettare l’affermazione seguente: “La popolazione mondiale aumenterà nel secolo XXI fino a 12 miliardi”, significa ammettere il seguente sillogismo: la popolazione mondiale raddoppierà. Ora, un raddoppio della popolazione suppone condizioni economiche e sanitarie soddisfacenti, quindi nel secolo XXI le condizioni economiche e sanitarie saranno soddisfacenti», e spiegò: «non è l’aumento dell’effettivo di una popolazione che si può mettere in relazione con i luoghi di carestia, ma piuttosto i torbidi politici. Gli esempi della Cambogia, della Somalia, del Sudan, del Mozambico e della Liberia illustrano disgraziatamente questa realtà. L’aumento contemporaneo della popolazione e della mortalità è dunque un mito, perché due processi contrari non possono svolgersi insieme. O la popolazione aumenta perché l’umanità riesce a nutrirsi, oppure l’umanità non riesce a nutrirsi e la popolazione non può aumentare». Continuò poi confutando altri miti: «Una delle grandi fiction demografiche attuali [considera la natalità] come responsabile della crescita demografica degli ultimi due secoli. Questa affermazione, che è una fiction, porta a una conseguenza prevedibile. Poiché la natalità è considerata il fattore determinante della crescita demografica mondiale, come il fattore responsabile della povertà, sarà necessario e sufficiente ridurre la natalità. [Si prevede dunque come unica misura concreta la pianificazione famigliare. Ma] se bastasse frenare la crescita della popolazione per giungere alla ricchezza lo si saprebbe e, a contrario, gli Stati Uniti d’America figurerebbero fra i paesi più sottosviluppati, avendo presente la loro eccezionale crescita demografica da due secoli a questa parte». [La pianificazione familiare (aborto, sterilizzazione ecc..)] non può essere efficace perché poggia su una fiction. Infatti, l’attuale crescita della popolazione mondiale non è dovuta a una natalità sbrigliata, che sarebbe aumentata da due secoli a questa parte, ma a una mortalità che è crollata, aumentando considerevolmente lo scarto fra mortalità e natalità [...]. È inutile voler controllare d’autorità la natalità quando non sono presenti le condizioni per un cambiamento di natura del livello di mortalità. Questo spiega, in passato, i numerosi fallimenti dei programmi di pianificazione familiare un poco ovunque nel mondo […]. La paura della “sovrappopolazione” costituisce indubbiamente oggi, dopo che il marxismo è passato di moda, l’ideologia più penetrante nel mondo. Io la chiamo l’Ossessione del Sovraffollamento del Pianeta, che corrisponde alla sigla O.S.P. [un’ideologia che sembra andare e venire ciclicamente nella storia dell’uomo e che porta con sé tre misteri: il] misconoscimento dei meccanismi demografici da parte di una grande percentuale di delegati [...], l’interesse sempre più ostentato di occuparsi delle “generazioni future”» [preoccupandosi poco di quelle presenti, e] «enunciare nuovi concetti» [per mascherare gli errori del passato].

Sempre nel 1995, Gregg Easterbrook, scrittore, conferenziere, ed editorialista di “The New Republic” pubblicò un libro dove confutava la convinzione popolare sull‘insufficienza della terra a contenere la crescente popolazione mondiale, chiedendosi: «perché altrimenti la così densamente popolata Olanda sia prospera e ragionevolmente pulita, mentre il Sudan spopolato è povero e segnato da numerosi fenomeni di rovina dell’ambiente? E perché la Svizzera, densamente popolata è ricca e linda, mentre nel Mozambico povero e con le risorse idriche inquinate vivono così poche persone?» (G. Easterbrook, “A moment on the earth, the coming age of environmental optimism“, New York, Viking, 1995, p. 479).

Uscì poi il volume “The cost of abortion” (Four Winds 1995) scritto da Lawrence F Roberge, docente presso l’Elms College (Springfield) e il Lesley College (Cambridge), ricercatore di medicina riproduttiva, genetica, neuroscienze e biotecnologie e membro della New York Academy of Science, nel quale dimostrò come il danno economico si riscontrasse molto più probabilmente in società con pochi figli, dove spariscono le opportunità di lavoro per insegnanti, medici, produttori e rivenditori (di giocattoli, pannolini e prodotti per l’infanzia).

Ancora nel 1995 su “Technology in Society” fu pubblicato uno studio realizzato da Paul E. Waggoner, ex presidente del The Connecticut Agricultural Experiment Station, docente presso la Yale’s School of Forestry and Environmental Studies, vice presidente della Connecticut Academy of Science and Engineering e membro della National Academy of Sciences (NAS). Egli calcolò che già allora 10 miliardi di persone avrebbero potuto essere nutrite adeguatamente se solo si fossero utilizzati metodi più moderni ed efficienti nelle fattorie già esistenti, usufruendo oltretutto dei terreni meno coltivabili.

Nel resoconto ufficiale del Vertice mondiale della FAO svoltosi a Roma dal 13 al 17 novembre 1996, si leggeva nel relativo sito web: «A livello globale, le scorte di cibo sono più che raddoppiate negli ultimi 40 anni. Questo ha portato le scorte alimentari globali a crescere più velocemente rispetto alla popolazione, creando un sostanziale incremento medio pro capite di scorte di cibo. I dati disponibili mostrano che tra il 1962 e il 1991 la media giornaliera pro capite di scorte alimentari è aumentata di oltre il 15 per cento. Nei Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle forniture alimentari pro capite è stato notevole, passando da quasi 1990 calorie nel 1962 a 2500 calorie nel 1991, mentre nello stesso periodo la popolazione totale è quasi raddoppiata, passando da 2,2 miliardi a oltre 4,2 miliardi di persone. Allo stesso tempo, le scorte di cibo nei paesi sviluppati sono passate da 3000 calorie nel 1962 ad un massimo di circa 3300 nel 1982, poi ridottosi a circa 3150 calorie nel 1991. L’incremento è stato particolarmente significativo in Asia, che ha pienamente sfruttato i vantaggi della rivoluzione verde, e in America Latina, che ha beneficiato notevolmente del progresso tecnologico [...]. Un aumento della popolazione e un cambiamento della sua struttura, in particolare per età e sesso, porterà a cambiamenti nella richiesta di cibo [...], ma questi requisiti possono essere soddisfatti da una grande varietà di combinazioni di prodotti alimentari [...]. Una più equa distribuzione delle risorse alimentari probabilmente eliminerà la maggior parte della denutrizione. L’aumento di forniture alimentari può favorire una migliore distribuzione solo se accompagnato da politiche adeguate [...]. I cambiamenti tecnologici hanno reso i prodotti alimentari meno costosi, ciò ha permesso un maggiore consumo da parte dell’uomo. A causa della riduzione dei costi, nei Paesi in via di sviluppo, si è iniziato a nutrire il bestiame con alimenti inizialmente destinati al consumo umano. L’aumento della domanda ha generato innovazioni tecnologiche, che a loro volta sono diventate meno costose da usare. L’aumento della concentrazione di popolazione ha probabilmente stimolato la produzione a causa del consumo di massa, anche se questa ipotesi non è stata ancora dimostrata». Uno dei maggiori ricercatori dell’Istituto Weizmann, Jonathan Gressel, intervenuto durante il Summit prendendo posizione circa la disponibilità mondiale di cibo, affermò: «Attraverso la biogenetica e la lotta chimica la produzione di cibo può essere quadruplicata» (citato in A. Di Robilant, “Di Burocrazia si muore”, La Stampa, 14 novembre 1996, p. 2).

Nel 1997 Friedrich August von Hayek, Nobel dell’economia, scriveva nel suo libro “La presunzione fatale”: «L’odierna idea che la crescita della popolazione minacci di produrre un impoverimento a livello mondiale è semplicemente un errore. Essa è in larga misura la conseguenza della semplificazione eccessiva della tesi malthusiana della popolazione».

Nel 1998 il “Rapporto sullo sviluppo umano” stilato dall’Union Nations Develompent Programme (Undp) commentò l’incredibile aumento di popolazione avvenuto tra il 1932 ed il 1990 in Machakos (Kenya), cresciuta da 240.000 persone a 1,4 milioni. Non vi fu alcuna catastrofe ma furono introdotte nuove e moderne tecniche di miglioramento agricolo, raccolti integrati e allevamento del bestiame che svilupparono la sostenibilità dell’intero sistema. Di fatto tra il 1930 ed il 1987 la produttività di cibo e i raccolti di grano crebbero più di sei volte. La produttività dell’orticoltura crebbe di quattro volte. Il rapporto diceva: «L’esperienza di Machakos offre un’alternativa ai modelli maltusiani. Essa dimostra chiaramente che anche in una area vulnerabile al degrado della terra, un’ampia popolazione può essere sostenuta attraverso una combinazione di cambiamenti tecnologici sostenuti da un’ampia struttura politica e da molte iniziative locali» (citato in A. Gaspari Bomba demografica e relativismo morale, pp. 4,5).

Sempre nel 1998 la nota attivista americana Frances Moore Lappé, autrice di diversi libri (da tre milioni di copie), co-fondatrice di tre organizzazioni nazionali che esplorano le radici della crisi di fame e della povertà, 17 lauree ad honorem da parte di molte illustri istituzioni e collaboratrice delle più importanti università americane, scriveva (assieme a Joseph Collins, fondatore dell’Oakland-based Institute for Food and Development Policy) il libro “World Hunger: Twelve Myths“ (Grove Press 1998). Il sito Amazon.com, la più importante compagnia di commercio elettronico, recensiva con queste parole: «Il libro più autorevole sulla fame nel mondo, scritto da tre dei maggiori esperti sui prodotti alimentari e agricoltura, i quali espongono ed esplorano i miti che ci impediscono di affrontare efficacemente il problema». Il sito dell’UNESCO pubblicò una sintesi delle conclusioni a cui si giunge nel volume. Rispetto al mito che vuole identificare l’esistenza della fame nella scarsità sia di cibo che di terreni, rispondeva dicendo: «La scarsità di cibo non può essere considerata la causa della fame quando anche negli anni peggiori della carestia c’è sempre stato molto cibo nel mondo, abbastanza grano da fornire a tutti 3000-4000 calorie al giorno, senza contare i fagioli, tuberi, frutta, verdura e cereali. E che dire della scarsità di terreno? Abbiamo esaminato i paesi più affollati del mondo per trovare una correlazione tra densità di popolazione e la fame. Non abbiamo trovato nulla. Il Bangladesh, ad esempio, ha appena la metà delle persone per ettaro coltivato di Taiwan. Taiwan non ha ancora “fame”, mentre la gente in Bangladesh soffre spesso la scarsità di cibo. La Cina ha più del doppio di persone per ogni ettaro coltivato rispetto a molti altri Paesi. Eppure, in Cina le persone non hanno “fame”. Al contrario, in America Centrale e nei Caraibi, dove sono denutriti fino al 70% dei bambini, almeno la metà dei terreni agricoli è usato per colture di esportazione e non per alimentare la popolazione locale». [Insomma:] «se la fame è causata da “troppa gente”, ci aspetteremmo di trovare persone più affamate nei Paesi con maggior numero di persone per ettaro agricolo. Eppure non troviamo una tale correlazione. Paesi con quantità relativamente grandi di terreni agricoli per persona sono alcuni tra i più sofferenti di fame cronica nel mondo. La fame è un problema ricorrente per molte persone in Bolivia, per esempio, un Paese con oltre la metà di terreni coltivati a persona, molto più che in Francia. Il Brasile ha più terra coltivata a persona rispetto agli Stati Uniti. Il Messico, dove molti abitanti delle zone rurali soffrono la denutrizione, hanno più terra coltivata a persona di Cuba, dove oggi nessuno è praticamente denutrito».

Nel numero 889 di Tuttoscienze (1999), supplemento scientifico de La Stampa, in un articolo titolato “L’umanità? Costituisce solo lo 0,01% delle forme di vita ”, si afferma: «Sei miliardi di Homo sapiens. Nessun altro mammifero si è mai avvicinato a una cifra così imponente, tanto che qualcuno ha paragonato la proliferazione umana a un cancro della biosfera [...]. Ma dal punto di vista quantitativo non dobbiamo sopravvalutarci. La biomassa umana equivale a quella delle formiche e, distribuita sulla superficie dell’intero pianeta, formerebbe una pellicola spessa meno di un millimetro, quasi invisibile. L’uomo, benché abbia raggiunto i sei miliardi di individui, equivale ad appena lo 0,01 per cento della biomassa, ed è quindi quantitativamente trascurabile rispetto agli insetti e agli altri animali, per non parlare del regno vegetale». E ancora, in un secondo articolo intitolato “Nel 2100 il mondo a crescita zero. E nel 2010 il sorpasso delle città sulla popolazione rurale”: «La popolazione mondiale dal 1900 ad oggi è aumentata di circa quattro volte, e l’aspettativa di vita è passata dai 35 anni del 1900 ai 66 di oggi. Ma grazie alla scienza e alla tecnologia nello stesso periodo di tempo il prodotto mondiale lordo è aumentato molto più rapidamente, incrementandosi di diciassette volte (da 2300 miliardi di dollari nel 1900 ai 39.000 miliardi del 1997). Anche da questo punto di vista, ammettendo che la popolazione mondiale sia destinata a stabilizzarsi intorno ai 12 miliardi, non c’è dunque un problema di risorse ma di una equilibrata distribuzione del benessere e di una educazione ecologica di massa al corretto uso dell’ambiente. Un solo dato: all’inizio del ’900 ogni agricoltore americano produceva cibo sufficiente per nutrire altre sette persone; oggi lo stesso agricoltore può sfamarne 96».

In un terzo articolo, intitolato “Siamo sei miliardi e c’è ancora posto”, Piero Bianucci, tra i fondatori e direttore di Tuttoscienze, affermava: «Sei miliardi è la cifra che rappresenta l’attuale popolazione mondiale. Non è il caso di dare la stura alla retorica apocalittica sulla massa dilagante dei nostri simili e sul loro oscuro destino, cosa che i giornali hanno già fatto a sufficienza [...]. Le risorse sono limitate, limitato deve essere il numero degli utilizzatori. Ma il problema più immediato non sta tanto nella scarsità delle risorse quanto nell’uso che ne facciamo». Bianucci infatti spiega, dati alla mano, che con una migliore gestione politica del pianeta potremmo “offrire una alimentazione e una sanità di base a tutti coloro che sono sotto la soglia minima di sopravvivenza».

Sempre nel 1999 Jean Ziegler, incaricato dalle Nazioni Unite per i programmi di lotta alla fame, nel suo libro “La fame del mondo spiegata a mio figlio” (Ed. Pratiche 1999), ha riconosciuto: «La teoria di Malthus è falsa e propugna una politica disumana, ma serve a placare la cattiva coscienza».

Nel marzo 2000 l’economista John D. Mueller, Lehrman Institute Fellow in Economia, direttore del Economics and Ethics Program at the Ethics and Public Policy Center e presidente del LBMC LLC, ha scritto un articolo intitolato “The Socioeconomic Costs of Roe v. Wade. How America would be Stronger if Abortion Remained Illegal”, dove sostiene che «dopo quasi trent’anni, i dati suggeriscono che l’aborto è stato tutt’altro che buono per gli Stati Uniti. Riducendo le dimensioni della popolazione, l’aborto ha corrispondentemente ridotto le dimensioni dell’economia e dell’innovazione. L’aborto legalizzato è anche il solo responsabile degli squilibri nel sistema di sicurezza sociale pensionistico. Preso nella sua interezza, l’aborto legale è forse il più grande evento economico americano del secolo scorso, più significativo di quello della Grande Depressione o della Seconda Guerra Mondiale. Se l’aborto fosse rimasto illegale, la popolazione americana sarebbe notevolmente più grande, conterrebbe una quota maggiore di matrimoni e famiglie intatte e gli standard di vita media sarebbero più alti». Più in particolare: «gli economisti sono d’accordo che l’effetto dei cambiamenti demografici sull’economia è approssimativamente proporzionale. Cioè, se la popolazione si riduce del 10%, la dimensione dell’economia sarà corrispondentemente ridotta di circa il 10%. Nessuna prova suggerisce, almeno in un’economia moderna, che una popolazione più grande abbia un impatto negativo sul reddito pro capite. Al contrario, i paesi avanzati con più veloce crescita della popolazione sembrano avere un aumento più rapido degli standard di vita». L’economista calcola che quasi trent’anni di aborto legale hanno ridotto la popolazione degli Stati Uniti di circa dell’11%, con una perdita netta di almeno 1.170 miliardi dollari rispetto a quanto sarebbe stato se la popolazione degli Stati Uniti non si fosse ridotta. Inoltre: «una grande quantità di letteratura sostiene che il progresso tecnologico è più dinamico in un’economia con una popolazione in crescita rispetto a uno con una popolazione stagnante o in calo. L’aborto legale mina una fonte primaria di alto livello degli Stati Uniti di vita rispetto al resto del mondo: l’innovazione». Concludendo afferma: «l’aborto legale ha iniziato a ridurre drasticamente l’importanza economica relativa degli Stati Uniti, ha abbassato il tenore di vita medio delle famiglie americane, e ha scatenato un comportamento socialmente distruttivo».

Il 10 luglio 2000, il prof. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia 1998, padre della rivoluzione agricola dell’India, intervenendo ad un seminario a Roma “Sulla disuguaglianza”, dichiarava: «Io penso che l’analisi di Malthus sulla crescita della popolazione sia completamente sbagliata. La storia e l’esperienza hanno dimostrato che l’istruzione delle donne è quella che permette di ridurre la fertilità. La produzione agricola inoltre è cresciuta sempre più rapidamente della popolazione. Non c’è quindi nessuna ragione di applicare queste idee antidemocratiche e antiumane di Malthus». Ha poi aggiunto che, nonostante l’incredibile crescita della popolazione dell’ultimo secolo, «il cibo, in termini reali, è molto più a buon mercato oggi di quando Malthus scrisse il suo “Essay on population”» (citato in A. Gaspari “Bomba demografica e relativismo morale”, pp. 4 e 5). Dello stesso parere anche un altro Nobel per l’economia, il professor Gary Becker, secondo cui «la teoria maltusiana non è sostenuta da nessuna prova, anzi si sono verificate alcune circostanze che dimostrerebbero il contrario e cioè che la crescita della popolazione è stata fondamentale per lo sviluppo economico. Bisogna stabilire un legame ottimista e non pessimista nei confronti della crescita demografica, visto che l?approccio maltusiano ha mostrato per intero la sua inesattezza e la sua inattendibilità» (citato in A. Gaspari, op. cit, p. 7).

NUOVO MILLENNIO

2001. Un rapporto delle Nazioni Unite riconosce che, nonostante la crescita demografica dal 1900 al 2000, «il prodotto interno lordo effettivo del mondo (PIL) è cresciuto da 20 a 40 volte, permettendo al mondo di sostenere una popolazione quattro volte maggiore, ma anche di farlo secondo standard di qualità della vita decisamente elevati. L’aumento della popolazione e lo sviluppo economico sono avvenute simultaneamente con un utilizzo delle risorse fisiche ambientali terrestri sempre meno sostenibile». Purtroppo stabilisce anche che «i tassi di crescita della popolazione stanno generalmente diminuendo [...], tra il 1965-1970 e il 2000-2005, il tasso di fertilità a livello mondiale è diminuito da 4,9 a 2,7 nascite per ogni donna». Nonostante l’esplosione demografica, «la percentuale della popolazione mondiale che vive in assoluta povertà (che ha un reddito inferiore a un dollaro statunitense al giorno) si è abbassata da circa il 28 per cento nel 1987 al 24 per cento nel 1998». Per quanto riguarda la produzione agricola mondiale, essa ha «camminato più in fretta della crescita della popolazione e il prezzo reale degli alimenti è diminuito. Nel periodo tra il 1961 e il 1998 la quantità di cibo mondiale a disposizione dell’uomo, pro capite, è aumentata del 24%. Oggi si produce una quantità di cibo sufficiente a nutrire adeguatamente la popolazione mondiale».

Nicholas Eberstadt, docente presso l’American Enterprise Institute e Senior Adviser al National Bureau of Asian Research, considerato uno dei maggiori esperti mondiali in campo demografico, ha scritto su Global che la “bomba demografica” era un abbaglio e che le economie rallenteranno proprio a causa del crollo dei tassi di fertilità. «Nei decenni 70 e 70 si prospettava un futuro di carestia e impoverimento globale in seguito alla paventata “esplosione della popolazione”, mentre oggi viviamo nella fase più prospera della storia dell’umanità. Quando si fanno previsioni riguardo ai futuri sviluppi della popolazione e alle sue conseguenze, è opportuno usare una buona dose di umiltà» (N. Eberstadt, “Liberiamo le cicogne”, Global FP numero 8 , aprile 2001, pp. 6-12).

È stato pubblicato un altro libro, divenuto poi molto famoso, intitolato “The Death of the West” (Thomas Dunne Books 2001) e scritto da Patrick J. Buchanan, politico e noto opinionista americano, più volte candidato alle elezioni presidenziali. Basandosi su dati ufficiali, per la maggior parte elaborati dalle Nazioni Unite, Buchanan ha avvertito che il collasso demografico dei popoli di origine europea, al contrario delle teorie ecologiste, ha raggiunto livelli così preoccupanti da far temere nel XXI secolo un evento che all’inizio del XX secolo sembrava inimmaginabile: “la morte dell’“Occidente”, cioè l’estinzione planetaria dei popoli bianchi. Agli inizi del Novecento, infatti, un abitante della terra su tre era di origine europea, e nel 1960, malgrado due catastrofiche guerre, erano ancora circa uno su quattro (750 milioni su 3 miliardi). Infatti, mentre la popolazione mondiale è raddoppiata, gli europei hanno progressivamente cessato di riprodursi diventando nel 2000 un sesto della popolazione mondiale (sarà solo un decimo nel 2050). Oggi 18 delle 20 nazioni del mondo con la più bassa natalità sono europee. Il tasso di natalità è di 2,1 figli a donna, il minimo necessario per la stabilizzazione della popolazione, molto vicino al tasso presente durante la peste nera del 1347-52. Il demografo Nicholas Eberstadt ha calcolato che nel 2050 solo il 2 % della popolazione avrà più di cinque anni, mentre il 40 % sarà ultrasessantacinquenne. È nota la frase di Buchanan contenuta nel libro: «L’Europa diventerà un continente abitato da vecchi, in vecchie case, e con vecchie idee» (citato in G. Piombini, “Nel mondo meglio essere tanti“, Il Domenicale 23/8/03 2001).

Le previsioni 2001 stilate dall’ONU per i futuri anni hanno indicato un forte rallentamento delle nascite, al contrario dei fautori della “bomba demografica”. Attualmente la crescita è di 76 milioni di persone annue, e la previsione parla di 43 mlilioni nel 2050. Antonio Gaspari, coordinatore scientifico del Master in Scienze Ambientali dell’Università Europea di Roma, in una recensione intitolata “Bomba demografica e relativismo morale” commenta questa previsione parlando di “inverno demografico“, poiché la percentuale di crescita demografica è inferiore allo zero, con meno di 2,1 bimbi per donna. Le Nazioni Unite prevedono che nel 2050 la Russia avrà 25 milioni di persone in meno, il Giappone meno 21 milioni, l’Italia meno 16 milioni, Germania e Spagna meno 9 milioni. L’Europa ed il Giappone nel 2100 perderanno metà della loro popolazione attuale. Nel 2050 dunque le persone sopra ai 65 anni saranno il doppio dei giovani sotto ai 15 anni, con conseguenze economiche disastrose: chiusura scuole, perdita di posti di lavoro, crisi del sistema pensionistico, crollo del commercio e rallentamento dell’innovazione tecnologica fino alla stasi (A. Gaspari Bomba demografica e relativismo morale).

2002. Jacqueline Kasun, ex docente di economia alla Humboldt State University di Arcata (California) e direttrice editoriale del Center for Economic Education, pubblica un articolo su Population Research Institute Review, in cui accusa i creatori del mito della sovrappopolazione.

2003. Il 3 febbraio, il Corriere della Sera informava dell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, nel quale si dichiarò che la popolazione mondiale supererà appena la soglia degli 8 miliardi di persone nel 2050 (entro il 2075 potrebbe diminuire di mezzo miliardo). Si annunciava anche il crollo del tasso di fertilità, riconoscendo che le previsioni secondo cui le risorse del Pianeta a metà secolo dovranno sostenere una massa d’umanità pari a 10 o 11 miliardi di abitanti, erano errate. Le nascite in Occidente sono infatti al minimo storico (1,6 bambini per donna) e anche nei Paesi in via di sviluppo le donne oggi hanno meno figli. Larry Heligman dell’ONU, ha spiegato al Sunday Times: «I dati indicano che la fertilità sta diminuendo rapidamente anche nei Paesi in via di sviluppo e non c’ è nulla che lasci pensare che il calo si fermerà». Per le Nazioni Unite, continuava l’articolo, la vera sorpresa era rappresentata da Paesi dove sino a poco tempo fa la popolazione cresceva a ritmi preoccupanti: in Iran, da 6,5 figli per donna nel 1980, si è scesi oggi ad una media di 2,75 figli. La stessa tendenza si è manifestata in Brasile, in Tunisia e in Indonesia. L’India in 30 anni è passata da 5,43 a 2,97 figli per donna, la Cina da 3,32 a 1,80, in Tailandia, negli anni ’70, le donne mettevano al mondo cinque bimbi a testa, oggi la media è 1,9. Il Corriere della Sera riporta anche il parere di Ron Bailey, autore del libro “Ecoscam: the false prophets of ecological apocalypse” (S. Martin Press 2004) e redattore scientifico del magazine Reason: «Questi sono dati che sorprenderanno gli ambientalisti che continuano a lanciare l’allarme sulla fame e sulla siccità. Le loro paure sono state alimentate principalmente dalla tesi che che gli esseri umani si comportano come gli animali: più mangiano e più si riproducono. Sembra chiaro, invece, che gli uomini si comportano esattamente nel modo opposto». La diminuzione del tasso di crescita, conclude l’articolo, comporta anche un invecchiamento graduale della popolazione: sempre meno lavoratori a mantenere sempre più anziani, con costi sempre maggiori per Welfare e pensioni.

Esce in Italia il libro “La terra scoppia. Sovrappopolazione e sviluppo” (Rizzoli 2003), scritto dal politologo Giovanni Sartori e da Gianni Mazzoleni. I due autori dichiarano di voler confutare l’opinione, fra gli altri, di Gary Becker, premio Nobel per l’Economia nel 1992, secondo cui la teoria maltusiana è fallita perché la crescita della popolazione è stata fondamentale per lo sviluppo economico. Fra i principali testi di riferimento di Sartori e Mazzoleni c’è “The Limit to Growth” (1972), il già citato studio commissionato dal famigerato Club di Roma. I due autori ritengono erroneamente, come gran parte degli ecologisti, le risorse naturali come una quantità fissa, e invece il concetto di risorsa non è definito dalla natura, ma dalla tecnologia che può essere utilizzata (si pensi a petrolio e silicio). Sartori attacca invece proprio la tecnologia, la quale ci consentirebbe «di vivere e di sopravvivere in modo innaturale, oltrepassando i limiti imposti dalle risorse naturali». È invece proprio il progresso scientifico e tecnologico, spiegherà pochi anni dopo l’antropofenomenologo Giorgio Bianco su Il Domenicale (citato in J. Jacobelli, “Emergenza demografia”, Rubettino 2004, pp. 69,70), a consentire di perpetuare e moltiplicare la disponibilità di risorse agevolando la scoperta di riserve sconosciute in precedenza o consentendo lo sfruttamento di risorse precedentemente troppo costose da utilizzare. E perché esistano le tecnologie occorrono idee, e le idee, va da sé, le hanno gli uomini: più uomini, più idee, più risorse. Si comprende bene, spiega Bianco, perché l’economista libertario Julian L. Simon abbia intitolato il suo libro più importante “The Ultimate Resource”, la risorsa decisiva, il bene supremo, ovvero l’uomo. Sartori sostiene inoltre che «la fame (e ancor più la sete) sta vincendo, e vincerà sempre più, perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare». E si cita il solito (e unico) esempio della situazione nell’Africa subsahriana, dove esistono spaventose condizioni umane e un aumento della popolazione. Oltre al fatto che in quest’area dell’Africa ci sono anche Stati con la più bassa densità di popolazione al mondo, come la Repubblica Centrafricana (6 abitanti per kmq) o il Gabon (5 abitanti per kmq), il sottosviluppo è dovuto essenzialmente a motivi politici ed economici oltre che culturali. E non certo demografici. Lo spiegò bene, fra l’altro, Anna Bono, docente di Scienze Sociali presso l’Università di Torino ed esperta di Africa, nel suo libro “La nostra Africa. Una catastrofe annunciata” (Il segnalibro 1998): «mentre altre culture hanno elaborato tecniche sempre più complesse ed efficaci per trarre dalla terra risorse sicure e abbondanti, l’Africa sembra essersi fermata all’età del ferro». In Africa infatti si lavora male il terreno, senza bonifiche o canalizzazioni, con metodi di produzione arcaici, e rapporti sociali basati sullo sfruttamento della forza lavoro di donne e bambini piuttosto che uomini ecc.. Inoltre, continuare a sostenere l’equazione “sovrappopolazione = fame e sottosviluppo“, significa non riflettere sul fatto che dal 1960 ad oggi, la popolazione mondiale è quasi raddoppiata (ed è cresciuta di sei volte negli ultimi 200 anni), ma questo non si è tradotto in un disastro, bensì in un generalizzato sviluppo e in un aumento della qualità e delle aspettative medie di vita. Il boom demografico ha coinciso con una crescita della produttività, della produzione, della ricchezza, della sanità come mai nella storia dell’uomo. Questa esplosione è comunque data, come dimostrò lo studio preparato nel 2001 dalla Population Division del Department of Economic and Social Affairs dell’ONU, intitolato “Population, Environment and Development”, non tanto perché si nasce di più ma perché si muore di meno.

2004. Il 23 settembre 2004 il responsabile della sezione economica del quotidiano Repubblica, Giuseppe Turani, ha pubblicato un articolo intitolato “Il mondo invecchia e diventa più povero” nel quale commenta l’ultima analisi del Fondo monetario internazionale (Fmi): nel 2050 l’età media della popolazione mondiale aumenterà di 10 anni e crescerà sempre meno. Inevitabile un rallentamento del Pil pro-capite. Subito riconosce che sta avvenendo «proprio il contrario della vecchia teoria malthusiana secondo cui il boom demografico è strettamente connesso allo sviluppo economico». Un mondo con più vecchi, infatti, significa che diminuisce il numero di persone che produce, e questo si traduce in un’economia destinata a crescere più lentamente. Secondo il Fmi, continua l’articolo, la popolazione globale nel 2050 è stimata in crescita dello 0,25% contro l’1,25% attuale: è il risultato di un invecchiamento senza precedenti. In gran parte del paesi avanzati l’invecchiamento della popolazione è già in atto e la percentuale di popolazione attiva calerà significativamente nei prossimi 50 anni (negli USA il processo è rallentato da una forte immigrazione). Nel sudest asiatico e nell’Europa centrale e orientale, invece, questo trend prenderà il via a partire dal 2020, mentre nei paesi in via di sviluppo e in particolare in Africa e nel Medio Oriente si farà sentire solo nell’arco di alcuni decenni. Il rapporto del Fmi, continua Turani, mette anche in luce la progressiva diminuzione della popolazione dei paesi avanzati rispetto a quella del resto del mondo. Tutto questo comporterà un forte innalzamento della spesa previdenziale e sanitaria e un calo del pil pro capite, cioè un impoverimento generale. Per quanto riguarda il tasso di risparmio, il Fmi nota che in Europa e in Giappone calerà fortemente, a causa dell’invecchiamento della popolazione e del declino dei lavoratori attivi, portando anche un calo delle entrate fiscali. Per quanto riguarda il numero di persone nel 2050, secondo l’Onu, saranno 8,9 miliardi, secondo il Census Bureau Usa 9 miliardi, e secondo l’IIASA (International Institute for Applied Systems Analysis) e la Banca mondiale saranno 8,8 miliardi.

Il 4 ottobre 2004 il quotidiano Il Foglio pubblicava in prima pagina un articolo intitolato “Il problema del mondo è che i cinesi fanno pochi figli”, in cui si riportava la dichiarazione su Newsweek di Michael Meyer, oggi speechwriter del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon: «Nel mondo stanno nascendo sempre meno bambini. Il tasso di fertilità è calato dai 6 figli per donna del 1972 ai 2,9 di oggi, e i demografi dicono che continuerà a scendere più veloce che mai. La popolazione mondiale continuerà a crescere, dagli attuali 6,4 miliardi ai 9 del 2050. Ma dopo questa data, inizierà a diminuire in modo netto». Meyer dichiarava altresì: «La crescita dell’alfabetizzazione femminile e l’iscrizione nelle scuole ha determinato una diminuzione della fertilità, così come i divorzi, l’aborto e la tendenza a spostare sempre più avanti la data del matrimonio. L’uso dei contraccettivi, inoltre, è cresciuto drammaticamente negli ultimi decenni. Secondo le Nazioni Unite, il 62% delle donne sposate, o comunque “unite”, in età riproduttiva sta usando adesso qualche forma di controllo non naturale delle nascite».

2005. Julian L. Simon, docente di economia aziendale presso l’Università del Maryland e Senior Fellow presso il Cato Institute, spiega in un’intervista per Religion & Liberty che «la crescita della popolazione non ha un effetto statisticamente negativo sulla crescita economica», e concludendo afferma che lo standard di vita non è significativamente associato alla densità di popolazione, piuttosto lo sviluppo umano dipende in modo critico dalle economie libere, dall’assenza di guerra, di corruzione e di lotta politica. In modo ancora maggiore dipende dalle politiche governative, infatti si nota che i Paesi con peggior standard qualitativo non sono quelli più densamente popolati, ma maggiormente sono di stampo socialista e marxista.

2007. All’interno di una previsione a lungo termine, la Social Security Administration (SSA) ha riconosciuto che a causa della diminuzione di popolazione, il tasso di crescita dell’economia degli Stati Uniti, ricavata dal totale dei beni e servizi prodotti, sarà più lento. Anche il tasso di partecipazione declinerà costantemente (oltre il 59% entro il 2081). Come rimedio suggeriscono dunque la crescita percentuale di popolazione in età lavorativa che possa così contribuire all’aumento di forza-lavoro.

2008. La Banca Mondiale ha pubblicato un articolo intitolato “Urban Poverty: A Global View”, nel quale si discute degli effetti dell’urbanizzazione (cioè il processo che vede sempre più persone affollare le aree urbane). Secondo il documento, la gente che si trasferisce in aree più affollate non ha solo più probabilità di sfuggire alla povertà, ma starà meglio nel corso del tempo, perché «l’urbanizzazione contribuisce alla crescita economica che è fondamentale per la riduzione della povertà». «Nel complesso», continuano gli esperti della Banca Mondiale, «il processo di urbanizzazione ha svolto un ruolo importante nella riduzione della povertà, fornendo nuove opportunità per i migranti. L’economia urbana fornisce opportunità per molti ed è la base per la crescita e la creazione dell’occupazione».

Sempre nel 2008 il già citato economista Julian L. Simon, pubblica il libro “The State of Humanity” (Wiley-Blackwell 2008). Nel capitolo intitolato “The Standard of Living Through the Ages”, curato dai demografi Joyce Burnette e Joel Mokyr, si mostra che assieme alla crescita dei numeri dell’umanità, è cresciuto anche il nostro tenore di vita medio, sottolineando anche che ogni statistica su questo rivela che la popolazione è cresciuta nel tempo e la persona media sta meglio. Attraverso grafici sull’aumento del reddito pro capite, sull’aspettativa di vita media, sull’altezza media, sul consumo calorico, sul consumo di zucchero ecc.., i demografi espongono che l’incremento costante è parallelo alla crescita della popolazione nel tempo (citato in http://overpopulationisamyth.com/content/episode-4-poverty-where-we-all-started#header-3).

2009. È pubblicato uno studio da parte della FAO e della Banca Mondiale, intitolato “Awakening Africa’s Sleeping Giant – Prospects for Commercial Agriculture in the Guinea Savannah Zone and Beyond”“. In esso si spiega che circa 400 milioni di ettari della Savana africana sono molto adatti all’agricoltura, ma solo il 10 per cento di questi sono attualmente coltivati. Secondo lo studio comunque «l’Africa ha oggi una posizione migliore per raggiungere un rapido sviluppo agricolo rispetto al nord-est della Thailandia o del Cerrado. Ci sono una serie di ragioni per questo: la rapida crescita economica, la crescita demografica e urbana, la quale ha fornito mercati nazionali diversi e ampi e l’utilizzo di nuove tecnologie».

2010. L’economista Phillip Longman, senior research fellow presso la New America Foundation and Schwartz Senior Fellow al Washington Monthly, ha dichiarato: «La maggior parte dei previsti 2,2 miliardi di crescita della popolazione mondiale entro il 2050, non verrà dai bambini. Infatti, in quel periodo, la popolazione dei bambini (0 a 4) prevede un calo di 49 milioni. Una popolazione giovane, in crescita, crea più domanda di prodotti e una maggiore offerta di lavoro. Incoraggiando così le persone a cercare modi più efficienti per fornire cibo, energia e altri elementi essenziali, stimolando anche l’innovazione e lo spirito imprenditoriale».

2011. Alessandro Rosina, docente di Demografia nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, e membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Statistica, nonché del Consiglio Direttivo della Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze Statistiche e del Consiglio scientifico della Società Italiana di Demografia Storica, ha risposto con le seguenti parole agli eco-allarmismi del già stato citato Giovani Sartori, dichiaratosi “terrorizzato” da 10 miliardi di persone, sostenendo il controllo demografico “ad ogni costo”: «Quello che spiazza è soprattutto l’eccessiva semplificazione nella lettura dei grandi cambiamenti in atto e la brutalità delle soluzioni proposte. Non stupisce invece che Sartori se la prenda anche con i giovani, colpevoli di essere nati e di essere generazionalmente troppo diversi da lui, quindi sbagliati per definizione. Quando si pensa all’eccesso di crescita demografica sono stranamente sempre gli altri, tanto più quanto sono diversi da noi, ad essere troppi». Ha ricordato poi che la crescita della popolazione ha permesso il miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Inoltre il secolo appena iniziato, purtroppo, «sarà quello del rallentamento e della stabilizzazione della popolazione. La fecondità decresce e la bomba demografica risulta oramai ampiamente disinnescata». Conclude il Rosina: «Come molti studi però evidenziano, più che misure coercitive sulla riduzione della quantità dei figli, la vera risposta è la promozione dell’investimento sulla qualità delle nuove generazioni per tutte le ricadute positive che produce. Ma questo il Sartori non lo sa o fa finta di non saperlo».

2011. L’economista Dermot Grenham, docente presso la London School of Economics, membro dell’Institute of Actuaries, ed esperto di demografia e popolazione, ha risposto alle accuse che alcuni ecologisti hanno fatto al calciatore David Beckham e a sua moglie per la nascita del loro quarto figlio (evento giudicato un brutto esempio per motivi demografici), dicendo: «Congratulazioni a David e Victoria! L’arrivo di un quarto figlio Beckham è sicuramente una grande notizia per loro, ma è anche una buona notizia per l’economia e per il futuro del pianeta! Non appena una celebrità ha tre o quattro bambini, i doomsayers [cioè i "catastrofisti"] iniziano a lamentarsi dicendo che stanno dando un pessimo esempio. Eppure i tassi di natalità nei paesi più ricchi sono già sotto il livello di sostituzione, in alcuni Paesi ben più al di sotto, il che significa che prima o poi ci sarà una diminuzione del numero dei lavoratori a sostegno degli anziani. Che tipo di società vogliamo lasciare ai nostri figli?».

2013. Erle C. Ellis, professore associato di sistemi di Geography and environmental systems presso l’Università del Maryland ha scritto un articolo sul “New York Times” intitolato “La sovrappopolazione non è un problema” spiegando che il fatto che gli esseri umani stiano superando la capacità di carico naturale della terra è «una sciocchezza. Queste affermazioni dimostrano una profonda incomprensione dell’ecologia dei sistemi umani. Le condizioni che sostengono l’umanità non sono naturali e non lo sono mai state. Fin dalla preistoria, le popolazioni umane hanno usato le tecnologie e gli ecosistemi ingegnerizzati per sostenere le popolazioni ben oltre le capacità degli inalterati ecosistemi “naturali” [...]. L’idea che gli esseri umani devono vivere entro i limiti ambientali naturali del nostro pianeta nega la realtà di tutta la nostra storia. Gli esseri umani sono creatori di nicchia. Trasformiamo ecosistemi per sostenere noi stessi. Questo è quello che facciamo e hanno sempre fatto. Non c’è ragione ambientale perché le persone siano affamate, ora o in futuro. Gli unici limiti alla creazione di un pianeta per le generazioni future sarà la nostra immaginazione e i nostri sistemi sociali».

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