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PREFAZIONE

Già nei video iniziali delle mie “Riflessioni sulla relatività di Albert Einstein”, ho affermato di non essere un credente in qualsivoglia confessione religiosa. Quindi non lo sono neanche nell’einsteinismo, che reputo una religione avente per dio la materia oscura e l’avversione all’io. Credo invece nell’io umano, cioè allo spirito umano in grado di sperimentare il pensare, che - fino a prova contraria - reputo l’UNICA unità universale possibile all’uomo, dunque l’unica possibilità di unione degli uomini.

I seguenti appunti si basano su una visione critica della scienza odierna. La bibliografia che riporto alla fine dello scritto non rispecchia, essendo di estrema destra, la mia fede apartitica. Perciò molti spunti di riflessione provenienti dai contenuti di tale bibliografia sono stati da me riveduti e corretti, cioè depurati da ogni ideologia di partito (almeno lo spero!).

A me pare che la cosiddetta relatività di Einstein, deformando e confondendo lo spazio col tempo, sia una mostruosa e inutile costruzione. È detta “relatività ristretta” e “relatività generale” ma con queste due denominazioni si allude ad argomenti di cui tutti hanno sentito parlare ma che nessuno sa di che cosa si tratti, dato che rappresentano una delle più colossali montature storiche nel campo delle scienze fisiche di tutti i tempi. Quando poi si voglia ricordare come esse siano state scritte in dispregio totale di ogni serietà e onestà scientifica (per esempio negli scritti di Einstein non vi è un solo riferimento bibliografico!) si deve concludere NON SOLO che esse sono uno scherzo o una truffa (come dimostrò Louis Essen, in Relatività: scherzo o truffa, Ed. Andromeda) ma che TUTTO L’EINSTEINISMO È DIVENTATO UN NUOVO CREDO per tutte quelle persone complessate, che a causa di estrema sfiducia in sé o nellessere umano (come predica il nuovo kérigma scientifico) fingono fideisticamente di credere. In altre parole: vogliono apparire, e vogliono apparire intelligenti, scienziati, esattamente come Einstein, il quale - come in molti sospettano - doveva godere di grandi complicità all’interno della redazione degli “Annali di fisica” per poter esporre le sue grossolane insensatezze, degne di Alice nel paese delle meraviglie.

Per es.: chi è in grado di dire oggi se la luce sia corpuscolare o ondulatoria?

Se fai questa domanda a un fisico ti senti dire che la domanda è mal posta, e ti dice lui cosa devi chiedere! La fisica, infatti, non sapendo rispondere, cosa fa? Si inventa principi. Per es., il principio di complementarietà. Ma questo è un principio che non spiega alcunché in quanto può essere applicato ad ogni termine di più qualità, luna contraria allaltra. Quindi si tratta di un mero formalismo, privo di contenuti: “complementare è sinonimo di aggiuntivo, secondario, accessorio, ecc. Un principio di queste qualità trasmutate in sostantivi (in cui per es., aggiuntivo diventa aggiuntività, secondario, secondarietà, ecc., e complementare diventa complementarietà) non è altro che “politichese”, anzi “fisichese”. Certamente il bianco sarà anche complementare al nero, però nella vita reale (per “realtà” intendo non il solo oggetto materiale, né il solo suo concetto immateriale, ma la riunione di entrambi, dato che uno senza laltro non può sussitere) se una cosa è bianca non può essere nera! E qui siamo nella logica. Allo stesso modo un corpo o qualcosa di corpuscolare non può essere un’onda o qualcosa di ondulatorio, dato che, ad es., l’onda del mare non è pensabile come corpo: un corpo può essere statico, un’onda, no.

Quindi a me pare - sempre fino a prova contraria - che la luce non sia corpuscolare, né ondulatoria… Nessuno sa dire scientificamente cosa sia la luce. Perché essa è tutto tranne che materia. Quindi non può essere misurata.

La scienza moderna si basa sul concetto di misurazione e la misurazione richiede quantità, cioè un ordine di parti di un tutto o di un insieme. Ovunque ci sia un insieme e ci siano parti, lì c’è quantità misurabile.

Lunità di misura è il risultato decisionale di scelta arbitraria di una quantità per farne una unità, al fine di contare quante unità possono stare per esempio in una lunghezza. Però la misura scientificamente esatta di una lunghezza è solo quella dello strumento misuratore! Una riga misura esattamente solo se stessa; un orologio misura esattamente solo il suo proprio movimento.

Perciò quando l’uomo misura qualcosa commette sempre un errore, benché minimo, specialmente quando l’unità è diversa dall’oggetto da misurare.

Già i concetti matematici e geometrici esistono come esattezza solo nel pensare. In natura, no. Dal momento che col gesso faccio un punto sulla lavagna, ho davanti a me un agglomerato di particelle di gesso che chiamo punto. Coi punti posso tratteggare una retta, ecc. Ma se mi avvicino con lo sguardo a quei punti (o alla retta o al triangolo che tratteggio sulla lavagna) vedo che sono ben diversi dal punto, retta o triangolo che volevo rappresentare quando mi sono messo a scrivere alla lavagna.

Figuriamoci allora la luce: è qualcosa di materialmente misurabile? No, perché non ha parti, non è fatta di parti. La luce è luce. Se accendi la luce accendi la luce, non una sua parte. Eppure l’affermarsi della teoria della relatività di Albert Einstein, pur se aborrita da parte eretica, rafforza nel mondo scientifico accademico la “fede” nella teoria corpuscolare e/o nel concetto di fotone (quanto di luce), utilizzato da Einstein per spiegare l’effetto fotoelettrico. Ma è un errore simile a quello di chi volesse sostenere che il ritmo cardiaco è convenzionale in quanto ogni battito è un’unità aritmetica e quindi di misura.

L’unità aritmetica è altro dall’unità di misura (cfr. Nereo Villa, Il sacro simbolo dell'arcobaleno, Premessa: Distinzione fra unità di misura e unità aritmetica, p. 13, SeaR Edizioni, R.E. 1998), perché l’unità di misura ha bisogno dell’unità aritmetica per esistere come unità di misura. Invece l’unità aritmetica non ha alcun bisogno dell’unità di misura per esistere. E perfino la parola “aritmetica” ha il ritmo in sé. E il ritmo è altro dalla convenzione.

Non distinguendo fra unità di misura ed unità aritmetica il newtoniano Einstein fu solo un confusionario allennesima potenza: mescolò il concetto di definizione con quello di misurazione mediante 1) una formula per misurare l’accelerazione e 2) una seconda formula per misurare la velocità-uniforme, senza considerare che nella vita reale laccelerazione e la velocità-uniforme non sono affatto separabili, dato che è impossibile raggiungere una qualsiasi velocità-uniforme senza prima accelerare. Provare per credere! Questa astratta separazione dell’accelerazione dalla velocità-uniforme lo condusse così ad una relatività speciale da una parte, e ad una relatività generale dall’altra.

Queste due relatività, essendo mere astrazioni prive di connessioni con la vita, non si incontrarono mai e non potranno ovviamente mai incontrarsi.

Quindi tutta la meccanica fu ridotta - senza alcun motivo concreto di osservazione - al movimento ed all’energia (forza), tralasciando così importanti elementi del ritardo come 1’inerzia e 1’attrito.

Da allora - o meglio: già dal tempo di Newton e di Galileo - la fisica ha incominciato ad ammalarsi progressivamente di “macchinite” o di meccanicismo, ed oggi, grazie al genio di Einstein, procede in modo acefalo con le inutili stampelle della doppia “relatività” e della “meccanica quantistica”.

La scienza è da sempre caratterizzata come “cognitio per causas”, cioè come conoscenza attraverso le cause.

Questo però non può continuare ad essere riferito a cause campate in aria senza connessioni con la vita.

Dunque sarebbe ora di restituire alla fisica teorica quell’unità che mai ebbe e che non ha.

Nel 1827, Georg S. A. Ohm (1789-1854) scoprì la triplice relazione tra i tre elementi base dell’elettricità: 1) voltaggio, 2) corrente e 3) resistenza, rispettivamente connessi all’1) energia, al 2) movimento ed 3) all’attrito-inerzia.

Però nella meccanica questi ultimi (attrito-inerzia) non sono stati mai considerati per quello che sono veramente, e cioè RITARDANTI, come lo sono nell’elettricità (dato che la resistenza ritarda la corrente).

Questo fu un grave errore, perché considerandoli come energia in meccanica, essi sono posti fuori luogo. Perciò la fisica teorica, così mal messa, o così astrattizzata, senza connessioni con la vita, non può stare in piedi. Oltretutto, essa incomincia con la CINEMATICA, cioè delineando il moto esclusivamente in termini di misura, non in termini collegati alla vita del moto stesso.

Questa separazione astratta - ripeto con le parole dello studioso Silvano Borruso - è un grave errore, dato che quando si cammina o si va in bicicletta o in macchina o in aereo, ecc., è impossibile separare l’energia della massa-che-si-muove dalla sua velocità, perché sono una stessa cosa. Invece nelle formule cinematiche esse sono astrattamente divise. Lo stesso si può dire dell’accelerazione. Accelerazione e potenza coincidono. Nessuno può accelerare senza mettere più potenza (o nei piedi, nelle gambe, o nei pedali o nel motore della moto o dell’auto, ecc). Potenza e accelerazione coincidono sempre. Però la fisica teorica le considera separatamente perché così si possono misurare separatamente, cioè in modo astratto.

Einstein per i sui funambolismi da sognatore si valse di formule cinematiche per arrivare alle sue due relatività. Così, con la formula cinematica “spazio diviso tempo” della velocità, e con la formula cinematica “spazio diviso tempo al quadrato” per l’accelerazione, creò le sue due relatività: quella speciale e quella generale, che non si incontreranno mai perché sono astrazioni prive di connessione con la vita. Sono formule deficienti, cioè ridotte, incomplete. Ecco dunque perché LA COSIDDETTA RELATIVITÀ DI EINSTEIN È UN FALSO IN ATTO PUBBLICO. È un’impossibilità che non porterà mai luce sulla vera natura delle scienze fisiche.

 


Questo è un problema grave che la scienza fisica teorica deve risolvere se vuole liberarsi dalla situazione di stallo in cui si è cacciata. Il problema è poi ingigantito dal fatto che, continuando ad andare a tentoni coi suoi principi e le sue teorie astratte, nonché a nascondersi dietro la tecnologia, che sempre da’ risultati positivi e progredisce, si pavoneggia come nella favola di Esopo, mettendosi le penne del pavone per apparire bella agli occhi delle galline. Questa è la situazione. Quindi sarebbe ora di liberarsi di queste stupidaggini astratte, dannose e fraudolente, per riportare la scienza ad essere se stessa, come qualcosa che sta in piedi da sé: episteme insomma. Questo dice Borruso e non credo si possa dissentire da ciò.

Certamente per la “physically correct” queste affermazioni sono eresia, ma le eresie, se lo si vuole vedere, furono, sono, e sempre saranno motivi di evoluzione per ogni scienza.

I sedicenti scienziati che non hanno il coraggio di accettare le evidenti novità del mondo reale, né la realtà stessa, sono caratterizzati da pappagallismo coatto, cioè sono costretti a far finta di credere allo statu quo dell’odierna fisica per tirare a campare, secondo “motivazioni” connesse al problema del… pane, e del quieto vivere. Oggi è infatti raro comprendere idee nuove, perché ciò comporterebbe la comprensione delle deficienze di quelle precedenti. Si preferisce il “pro bono pacis” di una vita succube, purché legata al criterio dell’avere tutto e subito. Anche molti giovani oggi sono attratti da questa sopravvivenza meschina, che in fondo è schiavitù.
Eppure l’esperienza dimostra da sempre che le idee nuove soppiantano quelle antiche e superate, anche se NON purtroppo per via di ragionamento (o almeno, molto raramente per tale via), ma a forza di pugni nello stomaco, che si dimostrano poi del tutto inutili, in quanto con essi la costrizione prende il posto della convinzione: la forza bruta dell’“unione” (l’unione che fa la forza) sostituisce quella del pensare...

Si veda a questo proposito la seguente conclusione di una lettera di Vasco Ronchi, fisico innovatore, ad un giovane collega, suo ammiratore, a proposito del rifiuto di vari editori a pubblicargli un breve scritto, nonostante gli fossero “cordialissimi amici”: «Tutti hanno dovuto scusarsi del rifiuto, perché la pubblicazione di questo volumetto li avrebbe costretti a ritirare dal commercio tutti i loro testi di fisica. Bella ragione!» (cfr. in rete, di Umberto Bartocci: “Un piccolo frammento della storia della fisica del XX secolo: due lettere di Vasco Ronchi”).

In un’altra lettera il Ronchi riassumeva come segue gli atteggiamenti assunti da coloro a cui sono presentate le idee nuove: «1°) alcuni non ci capiscono nulla e, naturalmente, diffidano, pensando che si tratti di qualche cosa come la scoperta del moto perpetuo, convinti che se le cose in corso avessero presentato delle pecche così grosse, i grandi uomini dei tempi recenti e presenti le avrebbero già viste e rettificate. Conclusione: meglio non impegnarsi; 2°) altri capendo di cosa si tratta, non si interessano di questo genere di studi: ascoltano, si meravigliano, ma se ne disinteressano, pensando ai fatti propri; 3°) altri ancora capiscono di che si tratta, ma non vogliono andare incontro a grane e, amanti del quieto vivere, se ne disinteressano, lasciando ad altri il compito di smuovere le acque troppo stagnanti; 4°) altri ancora capiscono di che si tratta, ma sono legati a interessi editoriali, e trovano più conveniente lasciare andare le cose per il loro corso; 5°) altri ancora capiscono di che cosa si tratta, ma siccome non l’hanno trovato loro, ma anzi loro ci fanno la figura dei fessi, preferiscono non interessarsene, spinti da una puntina d’invidia (quest’ultimo è l’atteggiamento più diffuso fra le persone competenti [...], per quanto il fatto stesso che assumano questo atteggiamento sta a dimostrare che il livello è meno alto di quello che pensano» (ibid.).

Insomma la filosofia dell’ambiente mondiale dei fisici è bacata da secoli. Sarebbe indispensabile aggiornarla e urgente rettificarla. Invece questa strada è oggi pensata non più percorribile (alla faccia della relatività!), per cui si proposero e si propongono continuamente irrazionalità, quali il dualismo onda-corpuscolo, e principi su principi, quali il principio di complementarità, per non parlare poi del principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale non si possono stabilire con assoluta certezza e allo stesso tempo posizione e velocità di una particella, per cui ogni descrizione della fenomenologia quantistica non può che essere di natura statistica e probabilistica, ecc., proprio come si fa con le exit pol nelle previsioni politiche di voto! Tutte queste asserzioni “scientifiche” riguardano pertanto fenomenologie (come quelle dell’attuale CERN ad es.), che si affermano come razionalmente inspiegabili. Il risultato è che la fisica odierna conduce l’uomo all’irrazionalità, cioè a qualcosa da CREDERE come i miracoli. Davvero una bella “scienza esatta”! L’astrologia è di gran lunga più scientifica e coscienziosa!

Bisognerebbe aggiungere, per la verità, che Einstein, ad un certo punto si sveglia, e protesta perché non gli piace la visione del mondo a-causale, a-razionale, ed indeterministico, sbucata fuori dalla sua stessa “fisica”. Ed allora  bofonchia: “Dio non gioca a dadi!”, tentando di aggiustare il tiro, ma ormai è troppo tardi, e muore sostanzialmente ignorato da tutti coloro che “contano” nel Gotha della “fisica”. Ma cosa contano? Contano solo numeri, dando davvero i numeri.

Oggi viviamo perciò in una sorta di epistemologia della rassegnazione, in cui nessuno ha la minima idea di come possano essere convenientemente interpretati quasi tutti i fenomeni naturali della luce, della gravitazione, dell’elettricità, del magnetismo, ecc., ecc., ecc.

Di fatto la fisica odierna, meramente teorica, si è trasformata nella sola capacità di saper fare uso di una sorta di prontuario per tecnici praticoni, o per ingegneri, che hanno bisogno di regole piuttosto che di idee.

I fisici contemporanei, relativistici e quantistici, continuano naturalmente ad andare avanti per la loro strada sostenendo, senza apparente imbarazzo, opinioni del tutto opposte. Ed a favore delle loro speculazioni portano avanti esperimenti tanto insensati quanto costosi. Si noti che il macchinario “Large Hadron Collider” o LHC, “Grande Collisore di Adroni”, cioè la macchina più grande del mondo, costò 6 miliardi di euro. L’Italia, contribuendo per il 12%, mise a disposizione 720 milioni di euro, “spalmati” in 10 anni, per un equivalente di circa 50 milioni di euro all’anno. Ma non è finita: il mantenimento di questo inutile macchinario, lungo ben 27 km, continua a costare più di un miliardo di euro l’anno. L’Italia, grazie alle tasse dei “contribuenti”, ne paga il 10%, cioè 100 milioni di euro ogni anno! E ciò per scovare fanaticamente nuove particelle, passione questa, simile a quella dell’andare per funghi…

Quasi tutti oggi ritengono che le cose stiano nei termini detti da Einstein. Ciò però non vale per gli “eretici”.

La montatura di questo cumulo di contraddizioni è divenuta la colonna portante della stupidità moderna, al punto che Einstein è divenuto paradossalmente il simbolo dell’intelligenza. Oggi è facile sentire frasi come questa: “Non ci vuole mica Einstein per capire che…” o “Qui ci vuole l’intelligenza di Einstein per capire che…”, ecc.

Nereo Villa, Castell’Arquato, novembre 2016

GLI APPUNTI

 

Quasi un anno prima dell’articolo di Einstein sull’equivalenza fra la massa e l’energia a proposito della relatività ristretta, fu Fritz Hasenöhrl (famoso fisico, docente fra l’altro di E. Schrödinger, 1887-1961, al Gymnasium di Vienna) a rilevare tale equivalenza (F. Hasenöhrl, “Zur Theorie der Strahlung in bewegten Körper”, Teil I, “Annalen der Physik” Bd. 15, 1905; Teil II, “Annalen der Physik”, Bd. 16, 1905) e nel 1997 aveva già curato la traduzione in italiano di uno scritto di Bruno Thüring, “Albert Einsteins Umsturzversuch der Physik und seine inneren Möglichkeiten und Ursachen”, Bd. 4, Hamburg, 1940; traduzione italiana: “Einstein e il Talmud”, Ed. Ar, Padova 1997), nel quale si mettevano in luce con documenti i retroscena storici e psicologici del “tentativo einsteiniano di scardinare la fisica”.

 

Già nel 1935, anche Ernst Jünger aveva segnalato che quel “genio artificiale” (E. Jünger, “Der Arbeiter. Gestalt und Herrschaft - 1935”; traduzione italiana: “L’Operaio. Dominio e forma”, Longanesi, Milano, 1984) “sostenuto dai mezzi della pubblicità”, aveva “il compito di svolgere la parte avuta in altri tempi dalle grandi personalità” (ibid.), di cui Einstein era stato il prototipo perfetto.

 

Insomma lo sviluppo storico della questione “relatività” conferma la qualità di Einstein come genio artificiale in tutti i dettagli.

 

Già dalla fine dell’Ottocento quel nuovo ramo della fisica, detto “fisica delle alte velocità”, nonché quello correlato dell’equivalenza fra massa ed energia, erano stati progressivamente osservati da molti scienziati. Sia la parte concettuale che quella matematica dell’argomento erano state sviluppate in notevole dettaglio PRIMA della pubblicazione di Einstein; da Hendrik Lorentz e da Henri Poincaré - ma anche, prima di loro, da Woldemar Voigt (cfr. Karl Brinkmann, “Die Grundfehler der Relativitätstheorie”, Hohenrain, Tübingen, 1988) - sotto uno specifico punto di vista, e da Hasenöhrl sotto un altro punto divista del tutto diverso (cfr. più avanti).

 

Einstein non ebbe niente da aggiungere (e come avrebbe potuto con tutta la sua fisica mentale tutt’altro che intelligente, in quanto dadaisticamente informata alla concezione della “fisica” presente nella fiaba “Alice nel paese delle meraviglie”?) a quanto già sviluppato matematicamente e che aveva incominciato a fare da guida alla ricerca sperimentale. Non a caso, per diversi anni nessuno fece caso ai suoi aborti “relativistici”, almeno negli ambienti scientifici di una certa levatura. Si veda questa testimonianza in Herbert Dingle (“Science at the crossroads”, Martin Brian & O’Keeffe, Londra 1972). Herbert Dingle è un autore poco conosciuto, il cui “martirologio”, avvenuto dopo che ebbe il coraggio e l’integrità di prendere posizione contro l’einsteinismo, è stato descritto da Federico Di Trocchio nel suo “Il genio incompreso” (Ed. Mondadori, Milano, 1997). Dingle perse il suo posto di lavoro e su di lui fu fatto il completo silenzio mediatico; fu altresì perseguitato dall’establishment “scientifico” fino alla sua morte.

 

La fama di “grande scienziato” attribuita ad Einstein fu fatta crescere proporzionalmente alle sue attività politiche, a partire dal primo dopoguerra (cfr. Bruno Thüring, op. cit.), per raggiungere il suo culmine dopo i bombardamenti atomici sul Giappone nel 1945 (cfr. Umberto Bartocci, “Albert Einstein e Olinto De Pretto, la vera storia della formula più famosa del mondo”, Ed. Andromeda, Bologna, 1999).

 

Non a caso, fu proprio Einstein a essere l’animatore-principe del criminale “progetto Manhattan” per la messa a punto dell’ordigno termonucleare, progetto che trovò subito l’approvazione fanatica dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosevelt.

 

La prima bomba atomica avrebbe dovuto essere sganciata su Berlino. Il fatto che la guerra in Europa finì prima del luglio 1945 evitò che ciò avvenisse, e la bomba fu fatta esplodere sul Giappone dopo che quella nazione aveva già chiesto la cessazione delle ostilità (cfr. Giandomenico Bardanzellu, “Le armi segrete del Terzo Reich, rivista”, in “L’uomo libero”, Milano, N.58, settembre 2004).

 

Non a caso, ben sapendo che in Germania non c’era alcuna intenzione di sviluppare l’ordigno termonucleare e che nel campo del nucleare là le ricerche erano orientate soltanto alla produzione di corrente elettrica, diversi scienziati esuli dalla Germania nazionalsocialista, non vollero saperne di partecipare al progetto Manhattan (cfr. Stefania Maurizi, “Una bomba dieci storie”, Ed. Mondadori, Milano, 2004).

 

Fu dunque così che Einstein, anziché essere annoverato, alla stregua di Al Capone, fra i più grandi criminali di tutti i tempi come padre della bomba atomica e come uno dei più grandi e sfacciati ladri di proprietà intellettuale altrui di cui ci sia conoscenza storica, fu fatto passare come uno fra i geni più eccelsi del secolo XX (cfr. Martin Short, “Crime Inc.”, Methuen, London, 1984).

 

Dopo il 1945, tutti coloro che erano stati i pionieri dello sviluppo della fisica delle alte velocità e degli studi sull’equivalenza massa-energia - e i cui lavori, quindi, avevano indirettamente contribuito anche alla realizzazione dell’ordigno termonucleare - furono mediaticamente soppressi, e tutti i loro risultati furono attribuiti ad Albert Einstein.

 

Quanto a Hasenöhrl, morto nel 1915 sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale, ci fu prima della guerra un’iniziativa per conferirgli i riconoscimenti che gli sarebbero spettati (cfr. Alan Beyerchen, “Gli scienziati sotto Hitler”, Ed. Zanichelli, Bologna, 1986). Oggi è però divenuto una “non-esistenza” per l’establishment “scientifico”. E non è stato l’unico a subire questo destino. Vale la pena di citare Louis Essen: oggi è il tempo dei GPS ed il più zelota credente nell’einsteinismo da’ per scontato il fatto che l’orologio atomico dei GPS sia dovuto alla giustezza della formula dell’assoluta relatività einsteiniana (che è già una contraddizione in termini, dato che l’assoluto è il contrario di relativo e la che formula della relatività di Einstein poggia sulla costante assoluta della cosiddetta velocità della luce). Ebbene Louis Essen (1905-1997), autore dell’opuscoloRelatività: scherzo o truffa?” in cui vi sono riflessioni sulle unità di misura, lavorò per molti anni al Laboratorio Nazionale di Fisica (Teddington) al problema della misurazione del tempo e della frequenza; fu considerato il “padre” dell’orologio atomico per aver progettato e costruito nel 1955 il primo orologio atomico al cesio funzionante, mettendo però in discussione la velocità della luce (in verità impossibile da misurare perché la luce è immateriale). Nel 1959 fu insignito della Medaglia d’oro “Popov” dell’Accademia delle Scienze Sovietica e dell’Ordine dell’Impero Britannico. Quello che non si sa, o che non si vuole ricordare, è che i suoi scritti, che dimostrano la bufala della relatività speciale, posero fine alla sua brillante carriera, e decretarono il suo isolamento a vita dal mondo accademico.

 

Tutto ciò testimonia che la relatività fu ed è imposta dalla cultura dell’obbligo come “cultura di Stato”.

 

A partire dalla fine del secolo XIX, cioè da quando ebbe luogo il famoso esperimento di Michelson e Morley del 1881, e fino ai primi anni del secolo XX, si erano incominciate a delineare in fisica delle nuove casistiche che, alla lunga, che avrebbero avuto poi conseguenze epocali. Riguardavano praticamente le seguenti affermazioni: a) che i corpi in movimento cambiano le loro dimensioni geometriche in modo dipendente dalla loro velocità; b) che la materia e l’energia sono intercambiabili e trasformabili l’una nell’altra, secondo un coefficiente di conversione proporzionale al quadrato della velocità della luce nel vuoto; c) che i fenomeni “a” e “b” non sono autonomi; ma fra di loro esiste una correlazione, consistente nel fatto che l’uno è reciprocamente deducibile dall’altro.

 

Prima di entrare in argomento sugli approcci teorici utilizzati per “spiegare” queste affermazioni e per tentare di chiarirne la correlazione, accenno solo alla problematica circa il concetto di “etere”, sulla quale oggi non si parla quasi più (se non come curiosità storica), dato che fu soppressa, anche se non fu mai risolta.

 

Nonostante Umberto Bartocci abbia giustamente affermato che la luce è un fenomeno ben poco conosciuto e sul quale si hanno nozioni insufficienti, ammettendo che anche la luce sia un fenomeno elettromagnetico, l’etere veniva ad essere il mezzo portante delle oscillazioni elettromagnetiche, e quindi anche delle “oscillazioni” luminose, le quali avrebbero una determinata velocità “assoluta” o costante “c”, detta “velocità della luce nel vuoto”. “C”, quindi, viene a essere certamente un parametro fondamentale della fisica moderna, come lo sono tanti altri (lo zero assoluto, il numero di Avogadro, le costanti di Boltzmann e di Planck, ecc.). A questi parametri, chi si sognò di attribuire a questi parametri proprietà mistiche o miracolose fu Einstein, con la sua costante assoluta “c”.

 

La teoria elettromagnetica della luce (allora come oggi accettata come valida dalla maggior parte dei fisici) per potere mantenere la propria validità, abbisogna di un “etere”; e questo è implicito nella teoria stessa (cfr. Umberto Bartocci, op. cit., ed Herbert Dingle, op. cit.) anche se normalmente ciò non è mai esplicitato nelle trattazioni ordinarie dei testi universitari riguardanti tale teoria, dato che è impossibile parlare di oscillazione senza che ci sia alcunché che oscilli.

 

L’affermazione secondo la quale Albert Einstein avrebbe dimostrato l’inesistenza dell’etere è un mero sofisma di tipo dogmatico, come risulterà chiaro dal prosieguo. L’etere era in qualche modo visto come conferma del galileiano e newtoniano “spazio assoluto”, quindi come un riferimento preferenziale per la descrizione del movimento. Non si escludeva che i corpi in movimento potessero a loro volta causare un qualche tipo di spostamento (localizzato) nell’etere, il cosiddetto “vento d’etere”, la cui esistenza poté essere postulata con risultati validi per descrivere matematicamente certi fenomeni (non escluso il risultato fallimentare dell’esperimento di Michelson e Morley: la Terra, nel suo movimento, trascinerebbe con sé l’etere circostante nel cosiddetto fenomeno del “vento d’etere”).

 

L’“etere”, quindi, verrebbe a essere un qualche tipo di “materia” dotata di proprietà sue specifiche, tenuissima e presumibilmente continua (cioè non granulare; ma si veda più avanti), ma capace di esercitare azioni, tipo la frizione e l’assorbimento di energia dalla radiazione e dai corpi in movimento, sia pure su distanze e tempi molto grandi (cfr. Umberto Bartocci, op. cit.). Se il concetto di etere era visto come la cosa più naturale e necessaria del mondo da tutti gli scienziati di un secolo fa, quando Einstein lo soppresse continuò e continua ad avere alcuni validi sostenitori (in primis, il Bartocci, ma anche per esempio Luciano Buggio, presidente della Scuola di fisica Giordano Bruno di Venezia).

 

È probabile (anche se adesso ormai indimostrabile) che Hanns Hörbiger, autore della “Welteislehre” o dottrina del ghiaccio cosmico (sul conto della quale si veda, ad es., Hanns Fischer, “Weltwenden”, Voigtländer, Leipzig, 1928) si sia ispirato al concetto di etere quando affermava che tutti i movimenti nel cosmo sono soggetti a processi di rallentamento/frenaggio. E un’inusitata adesione a questo tipo di idee arrivò, nei suoi ultimi tempi, dall’Unione Sovietica dove, sembra, il regime aveva deciso ultimamente che lo “scorrimento verso il rosso” dei raggi luminosi, che doveva essere la prova di un universo in espansione, non sarebbe dovuto a effetto Doppler (e quindi l’universo sarebbe statico) ma a “stanchezza/indebolimento” della luce come conseguenza di avere dovuto attraversare grandi distanze (cfr. Ivan Jefrjemov o Efrémov, “Tumannost Andromjedy”; tr. fr. “La nébuleuse d’Andromède”, Radouga, Moscou, 1988; Jefrjemov, scrittore di fantascienza di punta negli ultimi tempi dell’Unione Sovietica, era anche il pedissequo illustratore dei punti di vista ufficiali sovietici nell’area “scientifica”!!!). Questo avveniva, dopo che per decenni l’establishment socialista aveva reso obbligatoria l’accettazione di una cosmologia “relativista” cioè einsteiniana (cfr. Bruno Thüring, op. cit.).

 

Vale la pena di sottolineare quindi che anche il concetto di etere è un concetto esclusivamente strumentale, come lo sono tantissimi anzi, la maggior parte dei concetti usati in fisica, non esclusi quello di energia, di entropia e quello di atomo (cfr. Hugo Dingler, “Geschichte der Naturphilosophie (1932)”; tr. it.: “Storia filosofica della scienza”, Longanesi, Milano, 1949) e come tantissimi altri concetti che adesso godono di uso frequentissimo, anzi scontato e obbligatorio, nelle trattazioni stereotipe di fisica, di astronomia, e di cosmologia.

 

Storicamente, il primo approccio alle problematiche accennate fu quello di vedere nella contrazione della materia in movimento un fatto empirico, una “nuova legge di natura”, messa in evidenza da quel famoso esperimento mediante cui si pretese misurare la velocità di spostamento della Terra rispetto all’etere usando un metodo interferometrico, quindi usando come fenomeno fisico di prova segnali luminosi che, nel vuoto, si muoverebbero con una loro propria velocità “c” e interpretabili poi come un progredire ondulatorio nel vuoto (nel vuoto etere). Questo esperimento, ideato da Hermann von Helmholtz verso la metà dell’Ottocento, fu portato a termine per la prima volta da Albert Michelson ed Edward Morley nel 1881 col “sorprendente” risultato fallimentare che nessun movimento terrestre risultava dalle misure. La descrizione dettagliata di questo esperimento è data in molti libri di testo, fra i quali, per esempio, Herbert Dingle, “The special theory of relativity”, Methuen, Londra 1961 (originale 1940); Corrado Mencuccini e Vittorio Silvestrini, “Fisica I Meccanica Termodinamica”, Ed. Liguori, Napoli 1993). L’esperimento, dopo, è stato ripetuto diverse volte usando apparecchiature sempre più sofisticate e con risultati invariabilmente fallimentari.

 

A questo risultato un’espressione matematica fu data da Hendrik Lorentz (in forma finale nel 1904; ma prima di lui abbozzata da Woldemar Voigt nel 1887), potendo dimostrare che il risultato negativo dell’esperimento di Michelson e Morley poteva essere “spiegato” ammettendo che un corpo materiale in movimento rispetto all’etere si contragga nella direzione del movimento, secondo un fattore uguale alla radice quadrata di [1 - (v/c)²], v essendo la velocità del movimento: questa è ancora adesso conosciuta come la contrazione di Lorentz, da lui proposta come qualcosa di assolutamente reale e che non doveva avere niente di fantasmatico, come invece dopo volle fosse il caso Albert Einstein (cfr. più avanti). Le conseguenze matematiche deducibili da questo fatto empirico furono poi derivate in grande dettaglio da Henri Poincaré, che pubblicò i suoi risultati in una serie di articoli apparsi fra il 1898 e il 1905 (per il lato storico di questi sviluppi si consultino Karl Brinkmann, op. cit., e Herbert Dingle, op. cit.; per il lato tecnico/algebrico, per esempio, Herbert Dingle, op. cit.). Non solo Lorentz faceva riferimento all’etere, ma per lui la velocità della luce nel vuoto, c, non solo non era la “più alta velocità fisicamente possibile”, ma non aveva niente di metafisico o di miracoloso (proprietà, queste, che poi le volle attribuire Albert Einstein, vedi più avanti): egli, anzi, disse esplicitamente che ci dovevano essere velocità fisiche superiori a c. Inoltre, Lorentz teneva per valida la teoria elettromagnetica della luce (la quale, lo si è già detto, perché possa avere un significato fisico ragionevole abbisogna anch’essa dell’esistenza di un “etere”). Da sottolineare altresì che nel 1908 un fisico svizzero ormai dimenticato, Walter Ritz, a proposito del risultato dell’esperimento di Michelson e Morley dava a priori una “spiegazione” valida quanto quella di Lorentz, nella quale ammetteva l’invarianza delle dimensioni geometriche dei corpi in movimento (e quindi, si veda più avanti, delle leggi della meccanica classica) e introduceva invece opportune modificazioni nelle equazioni della propagazione elettromagnetica (Sulle idee di Walter Ritz, cfr. Herbert Dingle, “Science…”, op. cit., e “Special…”, op. cit.). Le conseguenze che egli poteva trarre da questa sua ipotesi, circa l’equivalenza massa-energia, ecc., erano identiche a quelle che, partendo dalla contrazione di Lorentz, erano state sviluppate da Henri Poincaré. Alla formulazione di Ritz aveva aderito Herbert Dingle nei suoi ultimi anni (anni Sessanta) ma anch’essa sembra essere stata poi completamente scotomizzata.

 

Data la contrazione di Lorentz, ne risulta anche che un orologio che si allontani da un osservatore solidale con l’etere, si prenderà indietro (sempre in modo reale) rispetto a un orologio fisso rispetto all’osservatore medesimo. Questo, a ben vedere le cose, non ha niente di strano quando si ricordi che la misura del tempo dipende invariabilmente dalla lettura della posizione di un qualche oggetto materiale e quindi, direttamente o indirettamente, dalla misura di una lunghezza, e la lunghezza va soggetta a contrazione con il movimento. Su di queste basi Lorentz procedette a calcolare le relazioni algebriche che collegano le misure di lunghezza e di tempo in un sistema solidale con l’etere e in uno che si muova rispetto al primo con una data velocità: si tratta delle celebri trasformazioni di Lorentz, che non coincidono con quelle classiche di Galileo Galilei per i sistemi in movimento relativo uniforme.

 

Partendo dalle trasformazioni di Lorentz si può sviluppare una formula per la velocità e per la composizione delle velocità che, naturalmente, differisce da quella semplice (addizione di velocità) della meccanica classica. E quando si imponga che anche sotto le nuove condizioni continuino a essere valide le leggi di conservazione della quantità di movimento e della massa (“massa” in senso lato, in quanto, lo si vedrà subito, sotto queste nuove condizioni la massa e l’energia divengono intercambiabili), ne risulta che anche la massa diviene una funzione della velocità secondo la formula m = massa a riposo rispetto all’etere/radice quadrata di [1 - (v/c)²]. Sviluppando questa uguaglianza in una serie di potenze di (v/c)² e se le potenze di v/c uguali o superiori alla quarta possono essere ignorate (cioè se v è sufficientemente minore di c) si ottiene che m = massa a riposo rispetto all’etere + (1/c²) x l’energia cinetica classica del corpo in movimento; col risultato che l’energia (cinetica) viene a essere una “massa” misurata in unità c² volte più piccole di quelle con cui normalmente si misura una massa.

 

A questo punto si può passare a fare due postulati addizionali:

 

1) se qualsiasi forma di energia può essere ricondotta a un’energia cinetica, allora qualsiasi aggiunta energetica (per esempio, per deformazione elastica) a un corpo o a un sistema di corpi è equivalente ad aumentarne la massa secondo la formula “massa aggiuntiva” = energia aggiunta/c²;

 

2) un corpo a riposo “contiene” un’energia uguale alla sua massa a riposo xc².

 

Questa ipotesi addizionale trovò poi una conferma “sperimentale” nel più spaventoso dei modi, rendendo possibile l’ordigno termonucleare. Quest’ultima è la celeberrima formula, dovuta a Henri Poincaré, oggi disonestamente attribuita ad Einstein.

 

Come si vede, per vie astratte e macchinose, l’equivalenza massa- energia risulterebbe anche dalla contrazione della materia in movimento.

 

Fritz Hasenöhrl (Hasenöhrl, op. cit.), percorrendo “a ritroso” le deduzioni di Lorentz e di Poincaré, dedusse la contrazione della materia in movimento dall’equivalenza massa-energia (lo scrivente, nella sua introduzione all’edizione da lui curata del testo di Bruno Thüring (op. cit.) auspicava che dall’equivalenza massa-energia, della quale la principale prova empirica era ed è l’ordigno termonucleare, si potesse dedurre per vie matematiche la contrazione di Lorentz. Questo, era stato fatto da Hasenöhrl, ma col vantaggio, rispetto a loro, di non avere bisogno di alcuna “nuova legge di natura” incomprensibile e di origine esclusivamente empirica, né di tutte le “ipotesi addizionali” che si susseguono nelle deduzioni matematiche di Poincaré. Hasenöhrl utilizza, per le sue analisi, quasi esclusivamente le leggi della termodinamica, aiutandosi occasionalmente, quando si tratta di dedurre certi valori esatti della pressione di radiazione, della teoria elettromagnetica, la quale egli assume nella sua forma classica. Hasenöhrl assume il concetto di etere, senza fare alcuna ipotesi particolare sulla sua struttura ma vedendo in esso semplicemente il “mezzo portante” delle oscillazioni luminose che, rispetto a esso, si propagano con la velocità “c”. Questa velocità, pure rimanendo un importante parametro di riferimento, non ha niente di particolare: e difatti, attraverso i suoi calcoli, egli utilizza valori della velocità di propagazione della radiazione inferiori e superiori a “c”, in base alla formula classica della composizione delle velocità. Hasenöhrl parla anche di movimenti assoluti e di velocità assolute, sia per i corpi materiali in movimento che per la trasmissione dell’energia raggiante, assoluti in quanto aventi per riferimento le stelle fisse, con le quali - egli non lo dice esplicitamente ma è implicito nella sua trattazione - è solidale l’etere (in merito alle stelle fisse come “riferimento assoluto”, è interessante come degli einsteinisti, per puntellare in qualche modo la “teoria della relatività”, si attacchino a un sistema “privilegiato” costituito dalla radiazione cosmica di fondo (un “etere metaforico”, per usare la loro terminologia). Anche se tutta la cosmologia moderna è qualcosa di vago, risulta che, per puntellare la cosiddetta relatività, c’è chi non trova di meglio che fare riferimento a quanto di meno “relativo” essi possano mettere mano (cfr. “Il giornale di fisica”, gennaio-marzo 2000).

 

Hasenöhrl deduce, da considerazioni termodinamiche, che l’energia raggiante deve avere una massa, e che il coefficiente di trasformazione energia-massa dipende dal modo in cui la trasformazione sia portata a termine, ma è comunque sempre proporzionale a “c”. Dopo avere stabilito questo, sempre in base a considerazioni termodinamiche, egli deduce la contrazione della materia in movimento (se questa contrazione non ci fosse, sarebbe possibile costruire, sulla base dell’equivalenza massa-energia, un “mobile perpetuo di secondo grado”). Nelle formulazioni algebriche, quando si presuma che si possano ignorare i termini in cui v/c appare elevato a potenze superiori a 2, il valore che Hasenöhrl ottiene per la contrazione coincide con quello di Lorentz. Qui si è davanti all’inverso di quanto aveva fatto Poincaré, quando deduceva l’equivalenza massa-energia dalla contrazione di Lorentz: anch’egli si fermava ai termini algebrici di grado non superiore a 2. Comunque, l’accuratezza sperimentale alla quale si può arrivare non sorpassa “v/c”.

 

Dal lavoro di Hasenöhrl risulta che la “contrazione di Lorentz”, che è quella che “maschera” la misurazione del movimento della Terra a partire da esperimenti portati a termine sulla Terra stessa, è implicita nelle leggi della fisica classica e, specificamente, in quelle della termodinamica (cioè: è come se la natura stessa “cospirasse” per occultare il movimento della Terra).

 

Già nel 1904, l’ing. Olinto De Pretto aveva non solo ipotizzato l’equivalenza massa-energia, ma aveva anche ottenuto una relazione quantitativa fra le medesime formalmente analoga a quella di Poincaré (E = 1/2 m c) per mezzo di particolari ipotesi sulla natura dell’etere e della materia (Olinto De Pretto, “Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo”, “Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere e arti” (Venezia), tomo LXIII, parte II, 1904, testo riprodotto integralmente in appendice in Umberto Bartocci, “Albert Einstein…”, op. cit.). È dunque certo (ibid.) che Einstein fosse al corrente delle deduzioni di De Pretto, attraverso il tramite del suo correligionario Michele Besso di Trieste, con cui De Pretto era in rapporti commerciali. Ne risulta quindi che anche l’ing. De Pretto fu uno (dei tanti) a essere derubato del suo sforzo intellettuale da Einstein.

 

All’equivalenza massa-energia il De Pretto antepone un’equivalenza materia/massa-etere, in cui l’etere è immaginato come avente una natura corpuscolare e come formato da particelle “ultra-atomiche”. Ogni particella di materia è concepita da De Pretto come un agglomerato di monadi eteriche in “rapidissimo e perenne movimento”, ma costrette a restare attorno a un punto di equilibrio. Siccome l’etere è il mezzo privilegiato per mezzo del quale si trasmette la radiazione, e quindi anche la luce, De Pretto crede ragionevole che la velocità di vibrazione di queste particelle di etere debba essere quella della luce nel vuoto “c”, ma che, in linea di massima, potrebbe essere suscettibile di acquistare valori anche maggiori. De Pretto da’ poi il passo qualitativo finale, senza usare mai particolari accorgimenti algebrici: se tutte le particelle di etere che costituiscono un corpo di massa “m” dovessero potere mettersi in moto tutte insieme e in blocco con la stessa velocità con cui vibrano “c”, ne risulterebbe una “forza viva” (il doppio dell’energia cinetica classica) uguale a “mc”. In questa considerazione ogni corpo perciò avrebbe potenzialmente in sé una somma di energia rappresentata dall’intera sua massa allorché si muovesse tutta unita con la velocità della luce nel vuoto.

 

Olinto De Pretto non suggeriva come questo risultato potesse essere ottenuto, ma allora un procedimento per quello scopo non era ancora suggerito da alcuno.

 

Si noti altresì che anche Nikola Tesla era un “eterista” (cfr. Massimo Teodorani, “Tesla, lampo di genio”, Ed. Macro, Diegaro di Cesena 2005). Prima della guerra, Tesla aveva ipotizzato la possibilità di una qualche “convertibilità” fra etere e materia; convertibilità che, se adeguatamente imbrigliata, avrebbe aperto la possibilità di sviluppi tecnici incredibili. Questa linea di ricerca non fu portata molto avanti da Tesla, in ragione delle circostanze della sua vecchiaia e delle inimicizie che trovò negli ambienti dominati dalla “cultura di Stato” dei cosiddetti “poteri forti”. Comunque è notorio che Olinto De Pretto e Nikola Tesla ebbero idee analoghe. Faccio comunque notare che i cosiddetti “poteri forti” esistono solo grazie al “pensiero debole”, ideologia degli odierni benpensanti e/o spensierati cultori del “nuovo” ordine mondiale, nuovo materialismo dominante in ogni confessione religiosa o scientifica (dato che l’einsteinismo non è altro che un’ennesima religione da credere).

 

Si è visto come da una espressione quantitativa della contrazione della materia in movimento - i.e.: dalla contrazione di Lorentz - si possa trarre tutta una serie di conseguenze matematiche, fino all’equivalenza massa-energia.

 

L’einsteinismo consiste esclusivamente in un macchinoso esercizio di funambolismo algebrico (noto del resto come il vero talento che Einstein aveva dimostrato possedere fin dalla giovinezza (cfr. Bruno Thüring, op. cit.) attraverso il quale Einstein ebbe la pretesa di potere dedurre la contrazione di Lorentz da principî “più fondamentali” ma che in realtà sono né più né meno che principî metafisici o pseudo-metafisici.

 

Acquisita la contraffatta contrazione di Lorentz, contraffatta in quanto per Lorentz tale contrazione  era qualcosa di reale rispetto all’etere, mentre per Einstein è qualcosa di fantasmatico (una cosa sono i fenomeni della contrazione dei corpi in movimento, cioè fatti empirico per Lorentz e Poincaré, e conseguenza delle leggi della termodinamica per Hasenöhrl, e dell’equivalenza massa-energia - conseguenza dell’accorciamento secondo Poincaré e fatto termodinamico secondo Hasenöhrl - e un’altra cosa la teoria della “relatività” di Einstein! Oggi invece si parla disinvoltamente e disonestamente di “fisica relativistica”, vale a dire di una bufala), Einstein può far scattare gli sviluppi algebrici di Henri Poincaré, dei quali si appropria in toto spacciandoli poi per proprî. Già nel 1940, Herbert Dingle, che allora era ancora einsteinista, aveva notato che tutta la “relatività” (ristretta) poteva essere ridotta all’ammissione che ciò che “conta” in una misura di lunghezza non è quanto verrebbe misurato da uno sperimentatore a riposo rispetto all’oggetto che sta misurando, L, ma la quantità L x radice quadrata di [1 - (v/c)], dove v è la velocità dell’oggetto rispetto allo sperimentatore (cfr. Herbert Dingle, “Special…”, op. cit.). Qui - dovrebbe essere chiaro, in quanto teoricamente di sperimentatori ce ne possono essere quanti se ne vuole - che tanto la lunghezza quanto tutte le altre quantità fisiche diventano fantasmi; ma siccome tutti gli sperimentatori reali svolgono i loro esperimenti sulla Terra, questa diviene un punto di riferimento obbligato e, soprattutto, come se fosse “assoluto”.

 

In quanto segue farò una disamina critica dei fondamenti dell’einsteinismo, prendendo le mosse da quella già fatta dallo scrivente nell’introduzione all’edizione italiana del testo di Thüring (Bruno Thüring, op. cit.), ma approfondendone maggiormente le argomentazioni.

 

Albert Einstein, per la costruzione del suo castello di carte, partiva dai suoi due strombazzati “principî della relatività (ristretta)”, ma si vedrà più avanti che, sottobanco, il funambolismo einsteiniano usava anche presupposti e concetti addizionali.

 

Incomincio dunque con la disanima di quei due “principî della relatività”:

 

a) Principio dell’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento in movimento (uniforme fino a che ci si restringe alla relatività speciale/ristretta) relativo. Secondo questo principio, le leggi della fisica devono assumere la stessa forma in tutti i sistemi di coordinate immaginabili in movimento relativo uniforme. Esso equivale a negare la possibilità, sia pure teorica, che ci possa essere un qualsiasi sistema di riferimento (sia esso l’etere, le “stelle fisse”, la superficie della Terra - che però è “privilegiata” dal fatto che l’umano sperimentatore è a essa ancorato - o qualsiasi altro sistema di riferimento) privilegiato /“assoluto” a cui si possa fare riferimento. Questo non è altro che un dogma; e di questo ci si accorse anche negli anni Venti quando Einstein incominciava a propagandare la sua “teoria” aiutato da vaste complicità, dalle grancasse mediatiche e da ottimi finanziamenti (Bruno Thüring, op. cit.). Anche se nella fisica classica si riteneva ragionevole che le leggi naturali fossero le medesime pur se formalizzate secondo diversi sistemi di coordinate, questa linea di massima non aveva mai assunto lo status di dogma. Già da ciò risulta dunque evidente l’assurdità della pretesa einsteiniana di avere dimostrato l’inutilità del concetto di etere - e magari la “non esistenza” del medesimo - in base all’argomentazione che “anche se esistesse non lo si potrebbe distinguere da qualsiasi altro sistema di riferimento”. In realtà quello che Einstein intendeva dire era che l’etere non esisterebbe perché la sua esistenza, come sistema di riferimento privilegiato, urterebbe contro il primo “principio”/dogma della “relatività”. Qui siamo nell’imbecillità del dogma, dato che è caratteristico di ogni dogmatismo che se il dogma urti contro la realtà, si derealizzi quest’ultima anziché il dogma.

 

b) “Principio” dell’invarianza della velocità della luce nel vuoto “c”. Secondo questo principio, la velocità manterrebbe sempre lo stesso valore indipendentemente dal sistema di riferimento nel quale essa è misurata, ed essa non obbedirebbe ad alcuna legge di composizione di velocità. Qui è subito chiaro che a “c” sono attribuite proprietà veramente uniche e miracolose. Inoltre questo secondo “principio” si trova ad essere, a fil di logica, la contraddizione del primo! Di questo si accorse anche Umberto Bartocci (cfr. Umberto Bartocci, “Albert Einstein…”, op. cit.), quando asserì che la “relatività” è una teoria “antinomica”, in quanto il secondo “principio” attribuisce alla luce proprietà che, fisicamente, appaiono parzialmente plausibili ma solo se si ammette l’esistenza di un mezzo - sia esso l’“etere” o qualcosa d’altro - in cui la luce, si propaghi come il suono con una velocità “propria” rispetto all’etere (cosa comunque non vera dato che il suono si propaga mediante onde meccaniche, inesistenti nella propagazione della luce), ed oltretutto l’ipotesi comunque non svincolerebbe “c” dalla legge di composizione delle velocità. Avendo escluso qualsiasi riferimento geometrico “assoluto”/privilegiato, Einstein mette al suo posto una velocità “assoluta”/privilegiata necessariamente dotata di proprietà miracolose! Qui è presumibile che Einstein, furbescamente, abbia dato a “c” questa posizione speciale anche perché, trattandosi di una velocità straordinariamente alta, egli così vi si nascondeva come dietro ad uno scudo che lo riparava da eventuali verifiche sperimentali; in ogni caso egli allora pontificò che la velocità della luce nel vuoto “c” era la maggiore velocità possibile in natura (a proposito di oggetti materiali o di segnali si veda più avanti). Secondo Einstein questo, come affermò negli anni Venti, sarebbe stato un fatto empirico “che ci viene imposto dall’evidenza sperimentale”. E qui siamo proprio nella congettura fatta passare per empiria dal giocoliere o dal prestigiatore, dato che allora non c’era alcuna velocità fisica conosciuta superiore a “c”, di oggetti materiali o di segnali. Fu però subito notato da Hugo Dingler (citato da Bruno Thüring, op. cit.), in polemica con Albert Einstein, che non esiste alcun processo logico che permetta di saltare da un “così è” ad un “così dev’essere”. In merito alla “proprietà” affibbiata a “c” da Albert Einstein, secondo cui essa non obbedirebbe alle leggi di composizione di velocità a cui sarebbero invece soggette tutte le altre, dovrebbe allora essere ricordato che una simile condizione “einsteiniana” può essere fabbricata ad hoc, traendo vantaggio dalle proprietà della curva cicloide: un oggetto può essere percepito come moventesi sempre con la stessa velocità “c” anche se la velocità reale dell’osservatore rispetto ad esso (usando lo stesso sistema di riferimento) dovesse variare in un qualsivoglia modo, senza dovere presupporre che l’oggetto in movimento o la sua velocità abbiano qualsiasi proprietà miracolosa o eccezionale (Luciano Buggio, “Relatività per tutti”, conferenza tenuta presso la Scuola di fisica Giordano Bruno a Venezia, il 17 ottobre 2002). Questo, se non altro, dimostra che anche se un “esperimento” dovesse essere imbastito al fine di dimostrare l’“indipendenza” della velocità della luce da quella dell’osservatore sotto determinate condizioni, ed anche se un simile esperimento dovesse dare risultati “positivi”, in pratica non si potrebbe mai essere certi di non avere preso un abbaglio.

 

Posti questi due “principî” contraddittori, Einstein procede a “dedurre” la contrazione di Lorentz per mezzo di un vero e proprio contorsionismo algebrico, acriticamente riportato poi in tutti i libri di testo di fisica per gli istituti di insegnamento (ad es., in Corrado Mencuccini e Vittorio Silvestrini, op. cit.). Il funambolo giocoliere Einstein imbastisce però in tal modo solo un esperimento… concettuale, attraverso cui si arriva a una relazione fra il tempo di un dato osservatore e quello di un altro che si muove rispetto al primo con una data velocità “v”; il tempo di ogni osservatore essendo quello segnato da un orologio con lui solidale che lo misura contando una sequenza di eventi ripetitivi. Il procedimento di sincronizzazione degli orologi è definito in base all’intercambio, fra i due osservatori, di segnali luminosi che si propagano con quella particolare velocità “c”, rispetto all’uno e all’altro, ma senza che ci sia alcun mezzo portante (“etere”). Ne risulta che il tempo dell’un osservatore è relazionato a quello dell’altro da una formula formalmente identica a quella dedotta da Lorentz per il rallentamento di un orologio che si muova (rispetto all’etere) con la velocità “v”. Partendo da questa “dilatazione del tempo” si può poi calcolare la contrazione delle lunghezze; nonché il fatto che due eventi simultanei per un osservatore non lo “sono”, cioè potrebbero necessariamente non apparire tali per l’altro, il cui “tempo” sia misurato da un orologio in movimento rispetto a quello del primo osservatore. Qui, a ben vedere, la non-simultaneità deriverebbe dal fatto che uno degli osservatori non è in grado di osservare una coppia di eventi simultanei per l’altro, se non mettendo mano (per definizione) a segnali luminosi che abbisognerebbero di un tempo finito per trasmettergli l’informazione e che (ecco la qualità miracolosa di “c”) non obbedirebbero ad alcuna legge di composizione di velocità.

 

A questo punto salta fuori il coniglietto dal cappello del mago, rendendo però subito evidente che se invece di “c” si fosse scelta un’altra velocità “c’” come obbligatoria per la trasmissione di segnali fra due sistemi in movimento relativo (e che “c’” avesse tutti i caratteri miracolosi di “c” ma non la medesima grandezza), il fattore di contrazione di Lorentz non sarebbe più stato la radice quadrata di [1 - (v/c)] ma quella di [1 - (v/c’)], cioè qualsiasi cosa, a seconda della scelta di “c’”. La scelta di “c”, e non della velocità del suono o di qualsiasi altra, dipese dal fatto che solo prendendo “c” come velocità-riferimento si poteva arrivare alla contrazione di Lorentz, già conosciuta in anticipo e che si teneva per empiricamente giusta (è esattamente lo stesso di quando in un esame si domanda allo studente di dimostrare che fra le variabili x e y sussiste la relazione (data) y = f(x). Il risultato, presupposto giusto, è conosciuto in anticipo e lo studente deve trovare un procedimento matematico per arrivarci).

 

Di questo si era reso conto, ai tempi suoi, Herbert Dingle (Herbert Dingle, “Science…”, op. cit.), il quale aveva osservato che la “teoria della relatività (speciale/ristretta)”, cioè l’einsteinismo, poggiava non solo su quei due “principî” - principio a) e principio b) - ma anche su una definizione c):

 

c) definizione: “ ... l’istante di un evento istantaneo che avviene a una distanza r (r misurata con un righetto a riposo rispetto all’orologio) è dato dalla sottrazione di r/c da quello segnato dall’orologio quando un segnale luminoso emesso nel momento e nel luogo dell’evento arriva all’orologio”.

 

Se, per definizione, quell’istante fosse ottenuto usando invece di c un’altra velocità qualsiasi, si potrebbe ottenere per la “correlazione dei tempi” e per la “contrazione di Lorentz” qualsiasi valore desiderato. Viceversa, se la trasmissione di informazione dovesse/potesse essere istantanea (“c” infinita), come è il caso dei messaggi telepatici (secondo Hans Bender, Telepathie, Hellsehen, Spuk, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart, 1972, il concetto di “natura” nella sua accezione odierna definisce una parte ridotta della realtà, che viene compresa con concetti relativi a un ordine spazio-temporale.

 

Portando fino in fondo il ragionamento einsteiniano risulterebbe che la contrazione della materia in movimento sarebbe evanescente, non dovrebbe esserci alcuna equivalenza massa-energia e, magari, anche le leggi della termodinamica diverrebbero problematiche.

 

Ma questo non è tutto. Nei suoi contorsionismi algebrici, Albert Einstein, implicitamente, identifica/confonde (cioé: non fa distinzione fra) il tempo (nei casi sotto esame, il tempo proprio di ogni osservatore) e ciò che è segnato da un orologio che l’osservatore abbia scelto per misurarlo. Cioè si fa confusione fra misura e cosa misurata (è di Albert Einstein l’affermazione che il tempo è ciò che viene segnato da un orologio: Salvador Dalí aveva ascoltato Einstein durante i suoi tempi di studente a Madrid, quando Einstein fece visita alla repubblica comunista spagnola negli anni Venti. Di Dalí sono degli interessanti quadri “La persistenza della memoria” o gli orologi molli o il tempo che si scioglie del 1931 e, dopo, “Lo scioglimento della persistenza della memoria” del 1954, nei quali si raffigurano degli orologi, come fatti di cera in via di scioglimento. Forse qui si ha da vedere un influsso einsteiniano, per cui si confonde il tempo con la sua misura data da un orologio. Si veda Anna Altrocchi, “Dalí”, Ed. Zeus, La Spezia, 2001). Questa identificazione/confusione, mai resa esplicita, è un (altro) dei difetti strutturali dell’einsteinismo, sulla cui disamina si soffermò soprattutto Karl Brinkmann (op. cit.; ma cfr. anche Bartocci, “Albert Einstein”, op. cit.).

 

Una conseguenza immediata di questi “ragionamenti” è il significato che si debba dare alla formula di composizione delle velocità. Dalla contrazione di Lorentz risultava una formula di composizione delle velocità che non coincideva con quella classica e nella quale la velocità c risultava essere una specie di “velocità limite”. Quando si adotti l’ottica einsteiniana, questo risultato diviene conseguenza di 1°) la luce è resa obbligatoria come mezzo privilegiato per la trasmissione di informazione e 2°) essa era stata comunque dichiarata d’ufficio la massima velocità massima con cui si potevano muovere i corpi o trasmettere i segnali (cfr. Corrado Mencuccini e Vittorio Silvestrini, op. cit.).

 

In altre parole: questo risultato era “pre-programmato” nell’algebra einsteiniana. Ma questa asserzione einsteiniana è stata dimostrata falsa: sotto determinate condizioni sperimentali, furono trasmessi segnali a velocità di fino a 300 volte c! Questo risultato fu conseguito nel 2002 e riportato nella rassegna della stampa quotidiana di giugno di quell’anno). Invece, il risultato di Lorentz-Poincaré, pure formalmente identico, non avrebbe niente di pseudo-metafisico, in quanto si riferiva ad una situazione sperimentale concreta (esperimento di Michelson e Morley) nella quale si lavorava fattualmente con segnali luminosi (non a caso Hendrik Lorentz si dichiarava sicuro che in natura ci dovessero essere velocità superiori a c).

 

A questo punto, si possono tirare, provvisoriamente, alcune somme.

 

L’einsteinismo si propone come una fabbricazione fuorviante basata 1) sul dogmatismo, 2) sulla miracolistica, 3) sul sotterfugio e 4) sulla confusione. Quindi dovrebbe essere posto, come luogo appropriato, in un museo delle cere - se un museo del genere dovesse esistere per le mostruosità concettuali. Ettore Majorana (citato da Umberto Bartocci, “La scomparsa di Ettore Majorana, un affare di stato?”, Ed. Andromeda, Bologna, 1999), che fu il più grande fisico italiano dell’anteguerra, ebbe a dire che l’einsteinismo era “falso”; ma forse non si espresse con esattezza: i concetti di vero e falso possono essere applicati soltanto a proposizioni che abbiano un senso, e l’einsteinismo non ne ha alcuno.

 

Insorge la domanda di come una “mostruosità concettuale” del genere potesse e possa essere accettata. Dietro ci furono moventi politici; ma, in questo caso, difficilmente si può liquidare tutto come una manovra esclusivamente politica. Esiste anche un clima psicologico proprio di ogni epoca storica; e adesso siamo immersi in quel clima psicologico che cominciò a prendere forma alla svolta dei secoli XIX e XX e che nell’ultimo mezzo secolo è divenuto massimamente pervasivo in ogni ambito. L’einsteinismo è proprio il paradigma scientifico appropriato per tempi di decadenza (al riguardo, sono di utile riferimento riferimento Bruno Thüring, op. cit., e Alan Beyerchen, op. cit.).

 

A proposito delle “prove sperimentali”. È di Federico Di Trocchio la seguente riassuntiva osservazione: “I capitoli relativi alla teoria della relatività nei testi di fisica dovrebbero essere scritti in modo meno partigiano e più critico […] e chiarendo sia sul piano storico che su quello logico il rapporto reale che essa ha con il risultato dell’esperimento di Albert Michelson ed Edward Morley […] e con tutte quelle che successivamente sono state presentate come prove sperimentali a favore senza tenere conto di quelle, altrettanto numerose, che testimoniano in senso contrario […]. (L’einsteinismo) andrebbe considerato non come un capitolo di fede ma come una proposta teorica […] che appare tuttavia difficile da accettare per i paradossi ai quali conduce” (Federico Di Trocchio, “Le bugie della scienza”, Mondadori, Milano, 2000).

 

La “prova”/disprova dell’einsteinismo sul piano empirico si articola in due aspetti diversi: 1) gli esperimenti eseguiti in laboratorio e 2) le disprove indirette, sia in sede teorica che empirica, risultanti dal fatto che l’einsteinismo, in ragione delle sue fondamenta dogmatiche e miracolistiche, comporta tutto un coacervo di paradossi e contraddizioni che, nella pratica, dovrebbero dare origine a tante situazioni paradossali e a tanti effetti fantasmatici che, manco a dirlo, non sono mai stati osservati (nella sua introduzione a B. Thüring, op. cit., Silvio Waldner fa notare che già nella non osservazione dei paradossi impliciti nell’einsteinismo si può vedere una “disprova” del medesimo. Ma anche qui vale l’osservazione, fatta a proposito di Ettore Majorana, che difficilmente si può parlare di prova o di disprova di qualcosa che non ha senso). Da notarsi che i paradossi e le contraddizioni dell’einsteinismo non toccano in alcun modo né la formulazione di Lorentz-Poincaré, né quella di Hasenöhrl, né quella di Ritz (vedi ad es. Herbert Dingle, “Science”, op. cit.).

 

Per quel che riguarda gli esperimenti di laboratorio (utilizzando magari “acceleratori di particelle”, si veda l’impianto del CERN, ecc.), che sono spacciati per “conferme della relatività” (cfr., per esempio, Corrado Mencuccini e Vittorio Silvestrini, op. cit.), in realtà non sono mai altro che conferme dell’equivalenza massa-energia o dell’accorciamento dei corpi in movimento, cose che - lo si è visto - con l’einsteinismo non c’entrano. I risultati in questione vengono ancora oggi macchinosamente incastrati nel paradigma einsteiniano (cadendo qualche volta in ambiguità, come quando non si sa come distinguere una “contrazione delle lunghezze” da una “dilatazione del tempo”), oppure saltando a pie pari delle possibili interpretazioni di tipo prettamente classico, sul tipo della massa elettromagnetica (vedi anche Bartocci, “Albert Einstein”, op. cit.).

 

Quanto ai processi termonucleari, che sono presentati qualche volta come la prova principale dell’esattezza dell’einsteinismo, essi hanno soltanto dimostrato che sotto certe circostanze la materia e l’energia sono intercambiabili e trasformabili l’una nell’altra secondo un coefficiente proporzionale, presumibilmente, al quadrato di c (cioé che E = K.m.c², dove però il fattore K rimane incerto): ed anche questo, come si è già visto, con l’einsteinismo non c’entra. Fino adesso, nessun processo termonucleare ha dato un “rendimento” superiore al 2 o al 3%, con riferimento alla formula di Poincaré (K = 1) (cfr., per esempio, Claude-Louis Kervran, “Preuves en géologie et physique de transmutations à faible énergie”, Maloine, Paris, 1973): il “vero” valore di K, rimane sperimentalmente indeterminato.

 

Le contraddizioni logiche e i paradossi derivanti dall’einsteinismo sono stati discussi da diversi autori (per es., Herbert Dingle, “Science”, op. cit.; Alberto Bartocci, “Albert Einstein”, op. cit.; Maurice Ollivier, “Physique moderne et réalité”, Éditons du Cèdre, Paris, 1962; Silvio Waldner in B. Thüring, op. cit.; oltretutto Bartocci, in “Albert Einstein”, op. cit. mostra come l’einsteinismo abolisce la legge di causa-effetto facendo in modo che la causa, se si vuole, possa anche venire dopo l’effetto). Se ne daranno qui due esempi, molto illustrativi, scelti fra la pleiade di possibilità alla quale si potrebbe attingere. 1) Data una bilancia in equilibrio, nel momento in cui l’osservatore dovesse muoversi rispetto alla medesima essa dovrebbe mettersi a ruotare attorno al suo fulcro (Silvio Waldner in B. Thüring, op. cit.). 2) Dato un oggetto formato da due parti solidali, siano esse separate dall’impatto di un raggio luminoso ed una delle due si metta in movimento nella direzione di incidenza del raggio. La parte staccata in movimento sarà raggiunta dal raggio luminoso in un tempo dipendente soltanto dall’iniziale separazione delle parti, e indipendente dalla velocità con cui essa si metta in moto dopo essersi staccata (inferiore a c, magari soltanto di qualche micron per millennio) (M. Ollivier, op. cit).

 

A questa medesima categoria di “effetti” probabilmente bisogna assegnare anche il cosiddetto “paradosso dei gemelli”, caldeggiato da Albert Einstein ai tempi suoi (“paradosso che deve essere accettato perché derivante in modo inequivoco da innegabili risultati sperimentali”). Dal fatto che un orologio in movimento si prende indietro rispetto a uno a riposo rispetto a un osservatore A, quando si ragioni su di un paradigma einsteiniano si pretende di dedurre che un osservatore B, solidale con l’orologio in movimento, invecchia molto più “lentamente” di A, che invece sta “fermo”. Per cui, se B torna indietro dopo un determinato tempo, si trova con un A fortemente invecchiato mentre lui è ancora giovane. Questo paradosso, che fece furori anche nella fantascienza, è attualmente poco menzionato perché si tratta di un autentico sofisma derivante dall’identificazione del tempo (età, condizione fisiologica) di un dato osservatore con la misura del medesimo, segnata dal suo orologio. È come dire che io dovrei cadere morto se il mio orologio si dovesse fermare (non solo: siccome A si allontana da B con la medesima velocità relativa, in direzione opposta, anche B dovrebbe invecchiare rispetto ad A - come si vede, ci si trova in piena manicomialità). Qui, Albert Einstein si pone esattamente nella situazione dell’orologiaio pazzo Zacharius, personaggio centrale di una riuscitissima novella di Jules Verne (si tratta della novella “Maître Zacharius” di Jules Verne, di cui esiste anche una traduzione in italiano (“Mastro Zacharius o l’orologiaio che ha perduto la propria anima”) in un solo volume con il “Viaggio al centro della Terra”, Ed. Mursia, Milano, 1967), il quale, avendo trasferito il proprio sé (la propria “anima”), pezzo a pezzo, negli orologi che fabbricava, deperisce e finalmente muore a seconda che, per l’azione del diavolo Pittonaccio, gli orologi, uno alla volta, si fermano (“[...] avendo io regolato il tempo, questo finirebbe con me [...]. Mastro Zacharius ha creato il tempo, se dio ha creato l’eternità [...]”).

 

Era stata data una “prova astronomica” dell’einsteinismo (dovuta all’astrofisico De Sitter, attraverso considerazioni sulla luce proveniente da determinate “stelle doppie”), facilmente demolita da Herbert Dingle (Herbert Dingle, “Special”, op. cit. e “Science”, op. cit.): “Ciò che De Sitter dimostrò è che la luce non scaturiva da una fonte, che si muoveva verso la Terra con una velocità V, con una velocità c + V e che poi mantenesse quella velocità rispetto alla Terra durante tutto il suo viaggio. Ma le sue considerazioni non escludevano che la luce fosse emessa a una velocità c + V rispetto alla Terra (e quindi a velocità c rispetto alla fonte), salvo poi mantenere sempre quella stessa velocità c rispetto alla fonte” (anche se questo testo si riferisce esclusivamente alla cosiddetta “relatività speciale/ristretta”, cioè a osservatori in movimento relativo uniforme, vale un appunto sulla cosiddetta “relatività generale”, un altro coacervo algebrico con cui Albert Einstein ebbe la pretesa di mettere mano anche ai sistemi di riferimento in movimento reciproco accelerato - cfr. Bruno Thüring, op. cit.; Karl Brinkmann, op. cit.; Umberto Bartocci, “Albert Einstein”, op. cit. - ; anche per quel che riguarda la “relatività generale” si parlò di una sua “conferma empirica” derivante dall’osservazione astronomica della flessione dei raggi luminosi in un campo gravitazionale. In realtà si trattò di un imbroglio portato a termine da un amico di Albert Einstein, certo Arthur Eddington, altro funambolista matematico che ai tempi suoi godette di grande fama, il quale, fra tutti i risultati dell’osservazione, setacciò quelli che - pure al limite dell’accuratezza osservazionale e quindi di valore molto relativo - potevano non dare torto alle “previsioni” einsteiniane; si veda ciò in Umberto Bartocci, “Albert Einstein”, op. cit.).

 

Concludendo, molti scienziati si sono trovati di fronte due fatti fisici:

 

1) la convertibilità massa-energia;

2) e l’accorciamento dei corpi in movimento; autonomi ma non disgiunti, in quanto conseguenza matematica l’uno dell’altro (in un senso e nell’altro).

 

La meccanica di Lorentz-Poincaré e/o la termodinamica di Hasenöhrl fanno da “ponte matematico” fra di loro. E l’accorciamento dei corpi in movimento rende impossibile la misura del movimento della Terra a partire da qualsiasi esperimento portato a termine sulla Terra stessa: questo lo aveva reso esplicito già Hendrik Lorentz, ai suoi tempi. Il movimento della Terra, di checché si possa trattare e rispetto a cosa esso avvenga, è percepibile soltanto attraverso l’osservazione astronomica degli spostamenti dei corpi celesti a seconda del trascorrere del tempo; spostamenti che, una volta “mappati” su di un sistema geometrico di tipo copernicano (il sistema copernicano - a detta del medesimo N. Copernico - non è alcunché di più “reale” di quelli, per esempio, di C. Tolomeo o di Tycho Brahe. Esso è, certamente, più semplice e quindi matematicamente più comodo) “rivelano” il movimento della Terra. Le cose si prospettano come se - lo si è già menzionato - esistesse una genuina congiura della natura per precludere all’umano sperimentatore la misura del movimento della Terra, che viene quindi a essere soltanto un “dato empirico di secondo grado” proveniente da determinate mappature matematiche del movimento osservabile degli astri.

 

Maurice Ollivier (op. cit.) - e prima di lui Ernst Barthel (E. Barthel, “Vorstellung und Denken”, Ernst Reinhardt, 1931) che non sviluppò però adeguatamente l’argomento -  arrivava alla conclusione che il vero significato del risultato fallimentare dell’esperimento di Michelson e Morley era che la Terra era fattualmente immobile (in un convegno scientifico internazionale tenutosi a Passadena – USA – nel 1927, con occasione dell’ennesima riconferma del risultato nullo dell’esperimento di Michelson e Morley, gli scienziati presunti, fra i quali c’era anche Lorenz, erano stati sufficientemente onesti da ammettere che l’unica conclusione che si poteva trarre dai risultati sperimentali era che - per qualche ragione - il movimento della Terra non era misurabile con il metodo einsteiniano proposto; cfr. Bruno Thüring, op. cit). E Silvano Lorenzoni (S. Lorenzoni, “Sottomondo, sovramondo e centralità umana”, Congresso Occidentale, Trieste, 2003) faceva un passo più avanti: se la convertibilità massa-energia (e quindi l’ordigno termonucleare) è un fatto empirico dal quale si può matematicamente dedurre la contrazione di Lorentz, e se quest’ultima (così l’Ollivier) viene ad essere un’espressione matematica (adattata a una visione copernicana del Cosmo) della fattuale immobilità della Terra, allora, paradossalmente, l’ordigno termonucleare viene ad essere la prova empirica più spaventosa della realtà di quell’immobilità.

 

Naturalmente, quando, in base a questi ragionamenti, si volesse rovesciare il sistema copernicano, ci si imbatterebbe in un altro necessario quesito: rispetto a cosa - in quale sistema di riferimento - la Terra sarebbe immobile? Forse rispetto all’etere, o alle stelle fisse? Oppure essa è autoreferenziale?

 

Oramai da molto tempo anche i più ineccepibili tromboni dell’establishment “scientifico” hanno fatto proprio il cosiddetto “principio antropico”, che afferma sostanzialmente che il cosmo dev’essere tale e quale esso è, o tale e quale loro si immaginano che debba essere, perché altrimenti l’osservatore umano che lo studia non potrebbe esistere. In tal modo, l’uomo è fatto riferimento centrale del cosmo; ma allora perché mai la cosiddetta scienza odierna continua a voler escludere l’uomo da se stessa? Quest’ultima si pone incoscientemente nella stessa linea di “pensiero” dei non pensanti, capeggiati da Osho! Fra le mega aberrazioni presenti nel web, quella di Osho mi sembra campeggiare come mastodontica massima del deficiente di pensiero. Si intitola “Non pensare”, ed inizia con queste parole: “C’è una qualità dell’essere [...] che viene dal non pensare: non è né buona né cattiva, è solo uno stato di non pensiero. Osservi, rimani consapevole, ma non pensi...”, cfr.  nel web: Osho, “Tantra”: “The Supreme Understanding, Talk #2”). Solo un alterato mentale può fare una simile affermazione. Infatti, già per il fatto di essere detta o scritta, questa dev’essere necessariamente PENSATA. E tale pensare dunque la contraddice. Quindi la qualità del non pensare è solo un koan inesistente, che per essere sperimentato o dialettizzato esige il suo contrario, cioè il pensare, che fra l’altro non è neanche una qualità ma è una vitale attività dell’io. Ed Einstein pontifica che dovremmo liberarcene: “Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli e giunto a liberarsi dall'io”. Peccato che lo scriva in un libro intitolato “Come io vedo il mondo”, dimostrando così al mondo intero la sua vera “intelligenza” alla Matteo Renzi! Spero che Maurizio Crozza se ne accorga!

 

Esiste una linea di pensiero, iniziata da Silvano Lorenzoni (S. Lorenzoni, “Chronos”, op. cit.) che non manca di una stretta relazione con quanto sopra. Sviluppando la gnoseologia di Immanuel Kant, egli approdava al concetto di “prigione kantiana”, particolare per ogni tipo di essere (per cui, a rovescio, ogni collettivo psicobiologico può essere definito come l’insieme degli esseri che sono compartecipi di una data prigione kantiana). Una prigione kantiana è la triade spazio-tempo-causalità propria a determinati esseri, per esempio l’umanità civile, e che ne informa la struttura psicobiologica. Secondo tale prospettiva kantiana, ogni essere umano sarebbe necessariamente limitato alla sua “prigione kantiana” (nelle sue esperienze sensoriali di veglia: i fenomeni psichici/parapsicologici e/o “magici” sono tutt’altro discorso) e non sarebbe possibile “uscire dallo spazio” o “trascendere il tempo”. Tale prigione rappresenterebbe il paradigma ultimo sulla cui base interpretare e strutturare ogni esperienza. E la sua prigione kantiana (che informa la sua natura psicobiologica) rappresenterebbe quindi l’“Urgrund” (la base stessa) e il riferimento ultimo che verrebbe ad essere anche l’unico possibile assoluto. È comunque chiaro che questo tipo di considerazioni trascendono il campo della fisica per entrare in quello della metafisica.

 

Bibliografia:

S. Lorenzoni, “Contro l’einsteinismo”, cap. 2°, Ed. Primordia, Milano 2013

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